[Ascolti_Pietre Miliari] Fred Neil – Fred Neil (Capitol, 1966)

Nell’epoca della moda, automoda e supermoda, Fred Neil è vittima della sottomoda. È un grande e tutti nel rock lo sanno. Al di fuori del rock sono pochissimi a sapere che la sua casa discografica era arrivata a uno slogan disperato e ispirato: compra un disco di Fred Neil e se ti piace te ne mandiamo un altro gratis. Pensavano, abbastanza giustamente, che una volta avuti due dischi di Neil te ne saresti perdutamente innamorato. Ma se è così bravo, perché non è anche ricco? La risposta è che ricco non ci diventi fintanto che non stai al gioco. Devi fare dischi e devi farne spesso. E devi promuoverli, praticamente sempre. Devi suonare nei locali, fare concerti, tour e più interviste possibile. Fred Neil vive allegramente a Miami. Non ha intenzione di andarsene per uno scocciante tour live, se può evitarlo 

Lillian Roxon ha sempre ragione, ma su Fred Neil ha ragionissima. In fondo sta tutto lì: un’idiosincratica cifra umana che si specchia senza mediazioni nel proprio agire artistico, con tanti saluti al mercato. Eppure non parliamo di un naïf: la sua iniziazione è quella del predestinato che mira ad affermarsi. Prematuramente esposto all’abbronzatura musicale grazie al padre, venditore itinerante di jukebox Wurlitzer, a fine anni 50 già timbra il cartellino al tempio dorato del Brill Building e compone per gente che conta, da Buddy Holly (Come Back Baby) a Roy Orbison (Candy Man). Un autore per altri, insomma, la scelta di chi vuole saltare a piè pari il dilettantismo per fare subito i conti con l’industria – con il top dell’industria, a voler esser precisi.

L’ostacolo a una carriera già spianata spunta fuori non da un difetto, ma da una dote. Le qualità performative di Fred sono troppo esagerate per finire accantonate, a partire dal mistero che scaturisce dalle sue corde vocali: un baritono gentile da crooner lunare, profumato come un bicchiere di brandy e carezzato da un misurato vibrato, capace di modulare registri sia bianchi (lo yodelin’ di Jimmie Rodgers) che neri (lo shout di Muddy Waters). Un canto posseduto da tutti i demoni della musica popolare americana, evocati da un ragazzo che non è mai stato giovane. Più che ai suoi impomatati connazionali, il gruppo sanguigno rimanda a un giovanotto scozzese che proprio in quegli anni sta muovendo i primi passi: Bert Jansch. Anche l’inseparabile 12 corde ha una voce tutta sua: pur rodato nel fingerpicking folk-blues, lo strumming di Fred decolla dalle radici per esplorare spazi mai frullati da turbina umana.

Le prime incisioni sposano il rock’n’roll di tendenza (è pur sempre nato nella città di Alan Freed), ma la sua vocazione verrà assecondata appena piantate le tende al Greenwich Village. Non ci mette molto a diventare un’istituzione vivente di MacDougal Street, vuoi per la vaga somiglianza con Woody Guthrie – anche se, a dar retta a Grace Slick, il vero sosia rimane Winnie the Pooh: è lui il “Poohneil” a cui i Jefferson Airplane intitoleranno ben due canzoni. Fa amicizia con Karen Dalton e Dino Valenti, ma soprattutto tiene a battesimo tutte le giovani leve che gli capitano a tiro: tra gli altri, John Sebastian e Felix Pappalardi diventeranno suoi assidui collaboratori. Quando Dylan approda nel quartiere in cerca di dritte, la risposta che riceve è sempre la stessa: “Chiedi a Fred”.

La sua vena, però, pompa in una direzione poco battuta dai menestrelli alla testa dei cortei: al topical singing preferisce i lamenti atemporali del Delta, reincarnati nelle sue profondissime ferite. Nella Grande Mela si agita già una motivata torma intimista (Eric Andersen, David Blue, Tom Paxton, il primo Paul Simon), ma Fred compie un passo ulteriore: insieme a Tim Hardin conia la figura del cantautore isolato, malinconico, “libero”, che quando attacca a cantare sai da quale molo salpa ma non su quale spiaggia naufraga. Un bisogno espressivo che lo spingerà a flirtare con la malleabilità jazzistica, ad uso e consumo dei futuri John Martyn, Van Morrison, David Crosby e Tim Buckley (questi ultimi due, tanto per non sbagliare, prenderanno lezioni direttamente da lui) come anche dei nostri Claudio Rocchi, Alan Sorrenti e Claudio Fucci. Non si discute: Fred è il primo navigatore di stelle.

Eppure lo spirito dei tempi è ben luminoso nell’esordio Tear Down The Walls (1964, in coppia con l’amico Vince Martin) e non solo per il tentativo della Elektra di lanciare l’ennesimo duo: la title track è una speranzosa canzone di protesta, mentre alcuni azzardi musicali preconizzano il folk rock. A Fred però il vestito calza stretto: si congeda senza traumi dal compare (che nel 1969 inciderà lo splendido If The Jasmine Don’t Get You… The Bay Breeze Will, misconosciuta gemma dell’oltre-folk) e l’anno dopo si mette in proprio con Bleecker & MacDougal, supportato da una gagliarda band elettrica. La copertina lo ritrae nell’incrocio del titolo come l’ennesimo hobo newyorchese, ma tra i solchi si annida già la personalità che sta per scolpire un caposaldo dei 60, anticipato dall’approdo alla Capitol e da un’altra bellissima copertina (opera del celebre fotografo rock Jim Marshall). E se i titoli sono sempre parlanti, Fred Neil parla forte e chiaro.

I dischi immortali si dividono in due categorie: quelli che sciorinano canzoni democraticamente memorabili e quelli che preferiscono alternare lampi folgoranti a schiarite bonarie. Quello in esame appartiene più alla seconda e per consegnarlo alla storia bastano quattro brani: due alle estremità e due al centro. Intendiamoci, non che il resto sia tappezzeria: gronda pura ambrosia tra la placida armonica di That’s The Bag I’m In, la filastrocca country di Ba-De-Da, il fatalismo agrodolce di Everything Happens e le ipnotiche delizie di Green Rocky Road, altrettanti saloon di questa frontiera acida per gentiluomini indolenti. Ben poco da eccepire anche sulle riletture che, da diligente etnomusicologo, Fred non può esimersi dall’includere: l’elegia fischiettante I’ve Got A Secret (dal repertorio di Elizabeth Cotten) e lo standard blues Sweet Cocaine. Il punto è che ciò che li precede, li inframezza e li segue è talmente bello da far traballare gli aggettivi per descriverlo.

Vi siete mai chiesti quale possa essere il suono di una nuvola che frana, senza per questo scomporsi in pioggia? Qualcosa di molto simile al rarefatto tremolo di The Dolphins, un batuffolo d’ovatta da succhiare per spremerne la spuma zuccherina. La carta psichedelica non è ancora stata promulgata, ma Fred in un colpo solo la firma e la straccia, scavalcando le nebbie lisergiche e palpando un astrale proto-dream pop. Non è un caso che il suo erede naturale s’impadronirà di questo brano per poi perfezionarlo in quella Song To The Siren che diverrà pietra angolare del sogno in note. Mormorate con gravità da saggio sulla montagna, le parole tracciano una parabola ecologista/antimilitarista che è anche un messaggio a un’amante senza volto, ma soprattutto un’accorata ode al più affascinante solcatore dei mari, cui l’autore dedicherà ben più che una semplice canzone.

Spostiamoci quattro tracce sotto. In teoria si tratta della preistorica Dink’s Song, un traditional che da Pete Seeger a Dave Van Ronk hanno maneggiato un po’ tutti. Fred però gioca sporco: la smercia alla dogana con il titolo alternativo Faretheewell e, in un raro slancio di protagonismo, la sottotitola Fred’s Tune. E’ una dichiarazione d’intenti: la melodia è effettivamente ristrutturata ex novo e del testo sopravvive quasi solo quella parola, salmodiata sopra due accordi di chitarra screziati dal tocco mediterraneo del bouzouki (forse un’idea del produttore di origini greche Nick Vent). Il trattamento non è dissimile da quello riservato a The Water Is Wide sull’album precedente, ma qui la voce abbraccia il cielo e fa tremare la terra, sublimando in un orizzonte metafisico. Forse l’addio più struggente mai intonato: quello della musica popolare che trapassa nella musica pop, del passato che diventa futuro attraverso il presente.

Di seguito, senza riprendere fiato, la stoccata al cuore. E’ un battito di ciglia, dalle foreste aeree alle strade polverose: Everybody’s Talkin’ è un inno alla provvisorietà errabonda che ribalta tutti i luoghi comuni della rambler song. Il solitario che “ascolta solo gli echi della sua mente” diventa una figura più fiera che rassegnata, ed è il mondo semmai a doversi adeguare a lui (“Goin’ where the weather suits my clothes”). Non vengono citate le immancabili tappe dai nomi evocativi, tra autostrade interminabili e motel pulciosi: il viaggio è quello dell’uomo comune, icona della letteratura made in USA in cui per una volta può immedesimarsi anche chi non frequenta deserti roventi o laghi ghiacciati. Il sospetto che si tratti di un alter ego dell’autore, da sempre poco incline ai percorsi convenzionali, è più che fondato. La sua dimessa versione si fa preferire al melodrammatico (per quanto emozionante) adattamento di Harry Nilsson, tema portante del pluripremiato Un Uomo Da Marciapiede. Di sicuro va dato atto a John Schlesinger di aver colto nel segno, aggiungendo un’ulteriore sfumatura di senso con la sua efficace ricollocazione metropolitana.

Anche quando non apre bocca, Fred sa farsi capire a meraviglia: lo strumentale finale Cynicrustpetefredjohn Raga proietta il vagito al curry di Eight Miles High verso i minareti di Kaleidoscope e Devil’s Anvil, un uroboro pan-etnico domabile solo da chi ha due nomi propri per nome e cognome. La chiamata alle armi criptata nella prima traccia può far squillare le sue trombe: da Haight-Ashbury a Woodstock, è già tutto dentro questi otto minuti. Niente male per uno che pareva destinato ad ammuffire nelle retrovie del fronte.

La personalità restituita dal disco è quella di un eterno sconfitto, che però predilige l’ironia all’amarezza: come i bluesman più consapevoli, Fred sembra perseguitato da un destino tanto beffardo da poterci solo ridere su, alternando distacco zen (“Well I know that the fault was mine/ What else could I do?/ It happens every time/ I guess there’s nothing left to say”) a micidiali rasoiate surreali (“You know they’ll probably drop the atom bomb the day my ship comes in”). Tuona un’eco universale nelle parole di questo schivo bardo, qualcosa che va oltre il mito tutto statunitense del perdente: celandosi nei panni dell’innamorato inappagato o del cencioso messo alla porta, l’autore pennella un potente ritratto della condizione umana.

Conscio di aver detto abbastanza, Fred fa seguire a questo capolavoro due album premonitori degli sviluppi di carriera. Sessions (1968) è esattamente ciò che promette di essere: sette brani semi-improvvisati, tra l’annoiato e il distratto, come se ormai facesse musica solo per se stesso; sulla copertina di Other Side Of This Life (1971), metà live metà studio (classica mossa che puzza di addio anticipato), si fa ritrarre in barca, col sorriso sornione di chi sta per giocare una burla. Da lì in poi, il silenzio più totale. Si è vociferato di una session del ’73 con John Cipollina e di due raccolte di cover incise a fine 70, ma a tutt’oggi non se ne sa nulla.

Nel frattempo si è trasferito a West Saugerties, nella stessa via in cui la Band ha colonizzato Big Pink, per poi tornare nella Florida in cui è cresciuto. E’ lì che nel 1970 prende la decisione che gli cambierà la vita: insieme a Ric O’Barry fonda il Dolphin Research Project, dedicandosi a tempo pieno alla tutela di questi meravigliosi animali. L’anno prima, sull’onda del film di Schlesinger, la Capitol ha ristampato Fred Neil ribattezzandolo (ma guarda un po’) Everybody’s Talkin’. E’ il momento di massima popolarità per le sue canzoni, ma lui non c’è più per nessuno.

Fred si concederà comunque qualche sporadica comparsata dal vivo: un concerto a New York nel 1971 con Stephen Stills (che lo citerà ripetutamente come influenza chitarristica), un’apparizione al Montreaux Jazz Festival del 1975 insieme a Sebastian, Harvey Brooks e Peter Childs e un ultimissimo cameo nel 1981 sul palco di Buzzy Linhart, per poi congedarsi dalla ribalta. Si tornerà a parlare di lui vent’anni dopo, quando il 7 luglio del 2001 verrà diffusa la notizia della sua scomparsa, a 65 anni, stroncato da un cancro. Senza far rumore, come ha sempre vissuto, e nella sua stagione preferita.

Non dev’essere male il paradiso dei Salinger musicali, quelli ritiratisi prima del tempo e senza impazzire: anche solo perché si sta larghi. Me lo immagino mentre improvvisa un blues con Captain Beefheart all’armonica, mentre Mark Hollis li osserva divertito. E la notte, come le tigri del pescatore di Hemingway o i deserti del Kaspar Hauser herzoghiano, sogna i suoi amati delfini.

Forse è il più importante cantautore vivente

Le citazioni all’inizio e alla fine sono tratte da Lillian Roxon, Rock Encyclopedia e altri scritti, traduzione di Tiziana Lo Porto, Minimum Fax 2014

Tracklist
1. The Dolphins
2. I’ve Got a Secret (Didn’t We Shake Sugaree)
3. That’s the Bag I’m In
4. Badi-Da
5. Faretheewell (Fred’s Tune)
6. Everybody’s Talkin’
7. Everything Happens
8. Sweet Cocaine
9. Green Rocky Road
10. Cynicrustpetefredjohn Raga

[lo trovi anche su Ondarock]

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