Appunti per un live report immaginario degli American Football

Il mese scorso avevo in agenda un progetto a cui tenevo: appostarmi sotto al palco dei redivivi American Football per poi rielaborare il concerto in uno dei miei soliti, appassionati resoconti. Alla fine non se ne fece nulla: le ragioni mi sono più o meno chiare, il perché sinceramente no. E adesso, che si fa con il live report? Poco male, vorrà dire che mi inventerò tutto di sana pianta: qualcuno può forse impedirmelo?

Ho sempre immaginato l’esordio omonimo degli American Football (1999) come il disco definitivo degli anni ’90, intendendo sia l’opera che meglio li riassume sia l’ultimissima emanazione non tanto di un’epoca quanto di un modo di immaginarla, atto conclusivo di un percorso tutto interiore iniziato nel 1991 da Spiderland (e, volendo, rianimato post-mortem nel 2000 da The For Carnation, che difatti considero il primo vero disco del nuovo millennio: ma questa è un’altra storia). Spiderland e American Football, a partire dalle loro copertine divenute iconiche quasi per caso, sono due dischi che potevano uscire solo in quel decennio e in quei due precisi momenti del decennio, e solo dal Midwest statunitense, terra aspra e laconica come questa musica. Due dischi irti di spigoli, disidratati e nodosi, dilatati nelle strutture e striminziti nei contenuti, densi di proclami ermetici e lucide incertezze, l’unica possibile Epica per i sopravvissuti. Se Spiderland segna il definitivo rallentamento astratto dell’hardcore e congeda una volta per tutte l’epopea fondativa degli ’80 underground, American Football è il crepuscolo malickiano del punk rock progressivo, il disincantato canto del cigno di tutto quanto i ’90 ruvidi hanno partorito di ambizioso (post-hardcore, emocore, slowcore, post-rock), ma anche l’ultimo fondamentale capitolo di una saga adolescenziale iniziata quando i punk smisero di arringare e iniziarono a problematizzarsi: da questo punto di vista, American Football è anche uno Skag Heaven aggiornato, manifesto tardo-generazionale di tre kids autoesiliatisi nella propria pulviscolare ispirazione, rappresentativo di tutto e di niente, acerbo e maturo come solo i vent’anni possono essere.

Da questo punto di vista, il sophomore dell’anno scorso, ancora una volta senza titolo perché impossibile da titolare, è giunto del tutto inatteso. Nel senso di inaspettato, ma anche di non richiesto: avremmo tutti preferito continuare a fantasticare su quel unico accecante ricordo, rassicurante come tutte le esperienze concluse, le uniche che non potranno mai deluderci e che possiamo rimpiangere quando non ci sentiamo bene. Ma se gli scrupoli feticisti in certi casi sono sacrosanti (e se è lecito diffidare di una scrittura innegabilmente meno illuminata, di una produzione fin troppo pulita e di una voce che ci piaceva di più quando il proprietario non aveva ancora imparato ad usarla), sapere che gli American Football sono qui e ora torna ad infonderci una nuova, sovrumana energia spirituale: e alzi la mano chi, nonostante tutto, non ha finito con l’innamorarsi anche di questa seconda casa bianca.

americanfootball

Le facce che si sporgono sulla sala buia, gremita di persone che hanno vaneggiato questa esibizione per diciassette anni senza mai crederci davvero, sono quelle di quattro giovani uomini destati da un letargo volontario, ancora sorpresi da un successo tardivo quanto in tutti i modi rifuggito, cult heroes loro malgrado ma comunque determinati ad assolvere l’impegnativa missione di cui si ritrovano investiti. Quattro, dunque, non più tre: Nate Kinsella, cugino del leader, ha infatti irrobustito la formazione originale con un basso apocrifo e forse non indispensabile. Capelli brizzolati e aria compassata da padre severo, è tutto il contrario di Mike, che tra flanella irrinunciabile e tatuaggi ultra-tamarri proprio non vuole saperne di crescere. I due Steve di contorno (Holmes alla seconda chitarra e Lamos alla batteria), anonimi nella fisionomia quanto incisivi nelle performance, forniscono l’ideale collante estetico-musicale. Un vertiginoso attimo di sospensione: imbracciano gli strumenti ma non li toccano, forse vorrebbero dire qualcosa ma tacciono, fissano il pubblico che li fissa di rimando, tutti paiono chiedersi cosa ci stanno a fare lì e cosa voglia significare tutto ciò, in una stasi afasica e quasi ascetica.

In realtà ci si è capiti a vicenda da un pezzo, senza bisogno di spiegazioni, e la risposta che scioglie la tensione si sgrana più catartica che mai in una spirale di Telecaster scampanellanti: Where Are We Now? è un’introduzione così programmatica da assumere un valore rituale, con quella domanda che è tanto esistenziale (valida per sempre e per tutti) quanto artistica (del tutto particolare e riferita al presente), una controllata detonazione emotiva a cullarci nelle pieghe screpolate di questo sogno che si avvera. A rincarare la dose arriva poi l’arpeggio cristallino di I’ve Been So Lost For So Long, e la sensazione è quella di una terapia di gruppo in cui tutti ascoltano e consolano tutti: chi, d’altronde, non si è mai guardato allo specchio chiedendosi per quale ragione si sia svegliato, e se varrà la pena commettere lo stesso errore il giorno successivo?
Scorrono le prime lacrime, ma è ancora presto: le note iniziali di Honestly? scatenano un boato liberatorio, qualcosa di simile alla ricomposizione di una dissociazione psicotica, le chitarre a rincorrersi forsennate come ragazzini nella polvere e poi quell’interminabile tour de force strumentale che si abbatte come un meteorite, Mike a stirare note abbastanza lancinanti da perforare l’anima sopra una combustione lenta che non esplode mai, prima di smaterializzandosi in un piccolo turbine granulare.
Dandoci a malapena il tempo di riprenderci dalla botta, Lamos posa le bacchette e sfodera una tromba, e il risultato è For Sure, quanto di più vicino ad una ballad gli American Football abbiano mai composto, un fiore in bianco&nero traboccante di una malinconia messa quasi tra parentesi, il cantato a struggersi in un sussurrare sempre più anemico mano a mano che la memoria si annebbia.

L’attacco tirato a lucido di My Istincts Are The Enemy, con i suoi tonici rimbalzi di armonici, riassesta il baricentro ritmico poi virato in negativo della paranoia strisciante di Home Is Where The Haunt Is, scura e spiritata come una notte insonne soli in casa. But The Regrets Are Killing Me gira su se stessa come un animale ferito in preda allo stordimento prima che I’ll See You When We’re Both Not So Emotional ci conduca per mano nel suo singhiozzante incastrarsi di lamine taglienti, la batteria a sferzarne il trotto spastico e la voce cianotica tra un crescendo abortito e un lieto fine negato, per poi tacere durante gli schioccanti saliscendi autistici di You Know I Should Be Leaving Soon, sciorinata con coordinazione da automi.
Born To Lose è invece dominata da una solennità spaesata, che nella seconda parte si carica via via di particelle fino a ingrossarsi come un fiume in piena, prima di cedere il passo alla freschezza melodica di Desire Gets In The Way, energica e urgente come una promessa d’amore ancora non bruciata. Give Me The Gun è un metallico aggrovigliarsi di sincopi tintinnanti, con un ponte che si complica come un gioco da tavolo preso troppo sul serio, fino a trasformarsi in un loop tarantolato; nulla di più distante dalla rassegnazione di I Need A Drink (Or Two Or Three), che si trascina con una stanchezza fangosa ma finisce col trovare qualche spiraglio di luce in un finale appena più arioso e propositivo.

La tromba, che aveva già fatto capolino nel brano precedente, diviene protagonista attiva di The Summer Ends, elegia scarna e introversa, quasi immota nella sua nostalgia chiaroscurale di stagioni idealizzate e forse tutt’altro che felici. Ed è ancora una tristezza infinita a dominare il pulsare agrodolce di Everyone Is Dressed Up, che nell’ultima strofa si accartoccia in un origami per voce&chitarra, irrisolta sigla di chiusura di un’esibizione che, come tutte le storie davvero intense e laceranti, sembra essere appena iniziata. Senza proferir parola, ancora confusi da un’attenzione morbosa che non credono di meritarsi, si ritirano dietro le quinte come una qualsiasi band di adolescenti al loro primo concerto.

Il pubblico ovviamente non ci sta e reclama a gran voce il bacio della buonanotte, forte della consapevolezza che i due brani più attesi non sono ancora stati serviti. Senza farsi troppo pregare ricompaiono quasi in punta di piedi, Mike accenna un sorriso vagamente imbarazzato, sta per dire qualcosa al microfono ma ancora una volta ci ripensa, riaccorda la sua splendida Deluxe in una delle solite impossibili configurazioni armoniche, Holmes brandisce una Jazzmaster e tanto per rovinarci una sorpresa che non è mai stata tale accenna l’arpeggio che tutti stavamo aspettando, poi Lamos batte il quattro e le urla delle prime file quasi coprono l’altalena degli strumenti: Never Meant è forse la emo song perfetta, una capriola carpiata che si avvita all’infinito come una trottola sotto metanfetamine, accenna evoluzioni e suggerisce piste inesplorate ma poi disattende tutte le promesse, un ventaglio di variazioni incapaci di ribaltare il proprio tema come un’adolescenza problematica.

Ci si sente bene e male dopo aver assunto roba così forte, e la ragnatela di chitarre vischiose che si dipana subito dopo è allo stesso tempo una medicazione e un colpo di grazia: Stay Home pare stagliarsi impotente contro un Vuoto pregno di significato, diorama inchiodato a se stesso in una reiterazione meccanica che alla fine si libera in una vorticosa scalata antigravitazionale, la batteria splendidamente sfrontata nel suo marciare dove le pare, la voce a inserirsi quasi all’ultimo come una telefonata che non si sperava più di ricevere e l’invito finale a “rimanere a casa” che andrebbe capito quanto sia rivolto ai discepoli adoranti e quanto a loro stessi. Senza fermarsi snocciolano come appendice la dimessa litania di The One With The Wurlitzer, la tromba sempre sul punto di spezzarsi e le chitarre smorte a fare le veci del piano elettrico, dopodiché a casa ci vanno per davvero e stavolta senza ripensamenti, anche perché il repertorio è ormai esaurito.
E anche noi ce ne torniamo a casa, ognuno con la sua personale cartolina di un’esperienza lontana anni luce dallo sciamanesimo comunitario del rock’n’roll, fatta invece per essere fruita in solitudine e rielaborata rigorosamente in cameretta. Forse, domani stesso qualcuno formerà (o riformerà) una band.

Progetto da studio nato a tavolino, mai davvero pensato per essere proseguito e tanto meno per essere trasposto dal vivo, gli American Football fanno della loro impacciata legnosità un punto di forza, e lo slancio eroico nel misurarsi con una tavolozza di colori al di sopra della loro gamma è lo stesso di un adolescente che, immaturo e testardo, si apre alla complessità del Reale. Anche la voce di Mike, che sul palco mostra tutti i suoi limiti, finisce col rivelarsi l’unico possibile veicolo per la dolente fragilità di queste canzoni, espressione prima della paura di crescere e adesso della difficoltà di essere grandi.

In fin dei conti, gli American Football rimangono i punk che sono sempre stati, e il loro messaggio di base è lo stesso, commovente slogan che ha fatto la fortuna dell’umanesimo hardcore: “la nostra band potrebbe essere la tua vita”.

Setlist
1. Where Are We Now?
2. I’ve Been So Lost For So Long
3. Honestly?
4. For Sure
5. My Instincts Are The Enemy
6. Home Is Where The Haunt Is
7. But The Regrets Are Killing Me
8. I’ll See You When We’re Both Not So Emotional
9. You Know I Should Be Leaving Soon
10. Born To Lose
11. Desire Gets In The Way
12. Give Me The Gun
13. I Need A Drink (Or Two Or Three)
14. The Summer Ends
15. Everyone Is Dressed Up

Encore
16. Never Meant
17. Stay Home
18. The One With The Wurlitzer

P.S.: ora che si penso, questo articolo poteva essere scritto solo a metà estate, e solo nel Centro Italia.

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3 pensieri su “Appunti per un live report immaginario degli American Football

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