“Per caso sai che genere suona il gruppo di stasera?”. Il tipo di domanda che ti asciuga la bocca. Complicata di per sé, vista la band in questione, ma ancora più enigmatica considerandone le implicazioni: cosa spinge uno spettatore inconsapevole in aperta periferia bolognese, previo biglietto? “È roba che si balla?”. Ora la faccenda si fa seria. Mi sforzo di essere neutra ma temo di suonare derisoria: “Credo sia la musica meno ballabile che tu possa trovare in città stasera”. Provo a dargli due coordinate, semplificando al massimo, ma il risultato si accartoccia oscuro e saccente. Mi guarda perplesso, non lo biasimo. Si allontana grattandosi la testa e non lo vedo più per tutta la sera. Che fessa, potevo rispondergli con una frase a effetto stile “suonano una musica che ti piacerà”, perché mi manca sempre quel tipo di prontezza? Potrebbe essere un verso di Geoff, ora che si penso.
Eppure c’erano già state le due aperture a infrangere i sogni di dancefloor: prima il melodismo rampante degli Eversor, poi i Frammenti, con il loro inchiostro di Kina chiazzato di camicie californiane e facce da Trainspotting, gocciolante su schiocchi byrdsiani, breakdown darkeggianti e innesti theremin-sintetici. Il dj set hip hop magari può confondere le acque, ma la divisa dei tre karateka è inequivocabilmente New England-core, con il bassista più tendente al catasto e il frontman quasi pronto per la spiaggia (non fosse per il profilo alla Monteiro). Sottigliezze da insider, forse. La musica però parla chiaro, seppur nella sua lingua laconica: tra il mexican standoff e la marcetta pre-fucilazione, Bass Sounds dispiega subito la poetica in sottrazione di questi inguaribili antidivi. Tutta da ballare, come no. O forse sì: ipnotizzato dopo 17 anni di astinenza, il pubblico oscilla come una barca cullata dalle onde. Vuoi vedere che quel ragazzone dall’aria assente c’aveva preso?

E la danza in effetti prosegue su If You Can Hold Your Breath, ma una danza da attacco ergotico, tutta stacchi, strappi, sbalzi. A sbalzarci per davvero fuori dalla pista accorrono, uno di fila all’altro, i due numeri più strazianti del repertorio: There Are Ghosts, con il suo attacco affilato e l’iconico assolo, e la serenata lacera di Gasoline, che ci grandina addosso con tale irruenza emotiva da mozzare il fiato all’ampli della chitarra (“We are too powerful, no stage can handle us!”, scherza Geoff sapendo di non scherzare). Fedele al copione ma irrorata di nuove venature, Diazepam è il narcolettico ideale per annegare dentro Small Fires, ennesima variazione-omaggio a quella Cortez The Killer che rimane la Stele di Rosetta dello slowcore.
Nervosa e rilassata come da dottrina Karate, sottilmente bluesy, First Release innesta la seconda marcia del trimotore sul repertorio più cerebrale (e un filo onanistico) degli ultimi album, confermata da una Original Spies precisa al millimetro, come un abito di sartoria. Il mood “ballabile” (di sicuro ballerino) ritrova asilo sulle inflessioni flamenco di Water, ma l’arpeggio avvelenato di Operation Sand ci riallaccia al palo in men che non si dica. Sever apporta dinamismo, concedendosi un maestoso cambio di tonalità e addirittura un esile siparietto di basso, arginato dal rinnovato slancio penetrante di Geoff. Vocazione ribadita e amplificata dall’imprevedibile pentalogia che occupa l’ultima porzione di concerto, tutta estrapolata dal secondo e sottovalutato In Place Of Real Insight, a cui si unisce a sorpresa l’amico ritrovato Eamon Vitt.

Lungi dal bisticciare, è un unisono perfetto quello tra i due manici: mercuriale in This, Plus Slow Song, militare su On Cutting, in cui il nuovo arrivato si sobbarca anche il microfono. Il tempo di ricucire le fila del tempo nell’autunnale Today Or Tomorrow e Geoff si riappropria del proscenio con l’esplosivo solipsismo di The New Hangout Condition, per poi sciogliere i cuori snocciolando una sentitissima dichiarazione d’amore: “We started again on the East Coast, then we played in Chicago’s most important music festival and we ended up on the West Coast. But there was one more place missing…”. Ed eccolo qua il nostro regalo, una New Martini dal tiro micidiale, urlata tutti in coro in un estremo tentativo di ricordare/dimenticare.
Combattuti tra le maree oceaniche di This Day Next Year e la rabbia impotente di – – –, i bis sono un condensato della compassata schizofrenia fariniana. E che sia valzer o pogo, di fatto stiamo ancora ballando.
Setlist
1. Bass Sounds
2. If You Can Hold Your Breath
3. There Are Ghosts
4. Gasoline
5. Diazepam
6. Small Fires
7. First Release
8. Original Spies
9. Water
10. Operation Sand
11. Sever
12. This, Plus Slow Song
13. On Cutting
14. Today Or Tomorrow
15. The New Hangout Condition
16. New Martini
Encore
17. This Day Next Year
18. – – –
(foto di Roberta Tarquini)
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