[Visioni] Il Lago Delle Oche Selvatiche (Diao Yinan, 2019)

Tutti contro uno. Colpevoli impenitenti o malcapitati costretti a fare di necessità virtù. Una perenne fuga da un mondo che ci vuole morti o dietro le sbarre, fino all’inevitabile resa dei conti: glorificando individualità derelitte lanciate in imprese titaniche, il manhunt è un filone di rara pregnanza cinematografica, con personaggi presto eletti ad archetipi (l’Eddie Taylor di Fritz Lang e il Charley Varrick di Don Siegel su tutti). Codice Hays o no, la manichea morale hollywoodiana deve farsi da parte: non è la giustezza di una causa a fare l’eroe, ma la grandiosità della sua impresa disperata – la quale, curiosamente, non coincide con un successo ma con una ritirata. Quando l’unico scopo del gioco è rimanere vivi, a essere posti sul piatto sono due temi eterni e inesauribili: la sopravvivenza in una società violenta e l’inconsolabile infelicità umana.

Il noir orientale, contraddistinto da riflessioni sulla colpa meno religiose e più esistenziali rispetto a quello statunitense, è un tatami ideale su cui inscenare queste corse a perdifiato. Bastano le splendide musiche dei titoli di testa a scaldare il cuore di chi ha sempre amato certe atmosfere notturne e piovose: che il nome sia quello di Diao Yinan e non di John Woo o Johnnie To è solo un dettaglio. Allo stesso modo, il protagonista è quanto di più iconico si possa desiderare: solitario, silenzioso, tabagista, innamorato. Un samurai invincibile che, in quanto tale, non potrà che finire vinto. Esiliato da ogni faccia del prisma pubblico, troverà la redenzione saldando i propri tormenti privati. Una prostituta dagli occhi tristi e una busta piena di soldi fanno il resto.

La congruenza tra malavita e polizia, pur su fronti differenti, è esemplificata dalle speculari assemblee (da infarto la rissa in cui culmina il plenum sotterraneo). I primi hanno una città da spartirsi, i secondi una reputazione da difendere, tutti e due dei colleghi da vendicare e un outsider da eliminare: più che combattersi fra loro, sembrano interessati a raggiungere lui prima degli avversari. La brutalità si spreca da ambo le parti: l’interrogatorio in ospedale del moribondo è crudo quanto lo stupro di Liu, per tacere dei media aizzanti alla riscossione della taglia. Muta e imperturbabile, la natura (il lago, la giungla, gli animali dello zoo) è impotente spettatrice di questo cinico circo, illuminato solo dalle intermittenti insegne al neon di quartieri sprofondati nella miseria. Il lirico pessimismo kitaniano aleggia più denso della nebbia e del fumo di sigaretta, nonostante un epilogo in fin dei conti propositivo.

Efferato e visionario, il regista mantiene la tensione alle stelle dalla prima all’ultima inquadratura, disseminando il minutaggio di chicche all’occorrenza virtuosistiche (l’inseguimento in moto sotto metanfetamine con annessa decapitazione, degno di una collaborazione tra Friedkin e De Palma), sensuali (la fellatio acquatica senza ingoio), grottesche (la festa in strada con gli inguardabili ballerini dalle calzature fluo) o surreali (il sicario impalato con un ombrello aperto, che non sarebbe dispiaciuto al Miike di Dead Or Alive). D’altro canto, il vorace ultimo pasto del condannato a morte, così carico di umana paura dopo quasi due ore di serrato cardiopalmo, è la commovente chiusa di una tragedia con pochissime lacrime e moltissimo Cinema.

REGIA/SCENEGGIATURA: Diao Yinan
PAESE: Cina/Francia
TITOLO ORIGINALE: Nan Fang Che Zhan De Ju Hui
DURATA: 113′
PRODUZIONE: Green Ray Films
FOTOGRAFIA: Dong Jingsong
MONTAGGIO: Kong Jinlei, Matthieu Laclau
MUSICHE: B6
CAST: Ge Hu, Gwei Lun-Mei, Liao Fian

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