“All I want is calm”, dichiarava qualche disco fa. Proposito a dir poco smentito dai fatti: per star dietro alle sue uscite su Bandcamp ci vorrebbe una task force dedicata. Diavolaccio pestifero di un Matt Christensen: i suoi bollettini marciano a cadenza quasi settimanale, sfidando non tanto la pazienza quanto l’umana comprensione. Non è semplice abuso delle potenzialità della rete quanto un raro caso della temuta “sindrome di Mark Kozelek”, che porta chi ne soffre a dare in pasto alla collettività qualsiasi idea estemporanea: poco più che abbozzi magari, messi nero su bianco per non essere dimenticati, ma con tale pervicacia da disperdersi in un taccuino ormai esaurito. E se lo scorbutico californiano può nascondersi dietro le esigenze di un’etichetta da mandare avanti, dall’Illinois gli si risponde con un’alluvione di release gratuite. Ad accomunarli, invece, il profondo valore terapeutico di tanta dissennata attività, quasi un’attestazione di esistenza per non sparire dentro le proprie paure.
Giusto che c’era, perché non rispolverare pure il marchio Zelienople, quiescente da cinque anni or sono? Detto fatto. Ci sono tutti: il basso sotterraneo di Brian Harding, le sommesse percussioni di Mike Weis (nel frattempo irrobustitosi in un ensemble di musica zen), la chitarra opalescente e la voce tutta di naso del leader. Dalla copertina evocativa ai titoli laconici, anche gli ingredienti sono quelli che si riconoscono a occhi chiusi. Paradossalmente, le coordinate sono ribadite con tanta meticolosità da forgiare la loro raccolta più esemplare, unitaria, solida. Certo, è un azzardo scientifico ricorrere a questo termine per sei tracce che aleggiano ben oltre lo stato gassoso: canzoni che ci sono e non ci sono, strumenti toccati più che suonati, droni prossimi alla trascendenza.
Musica che rimane in sospensione senza decollare mai, un’autostrada percorsa a notte fonda da un sonnambulo, un sudario che non ha mai avvolto un corpo. “Cinematografica”, si precipiterebbe a decretare un critico poco fantasioso. Safer inizia come se fosse in corso da sempre, America si interrompe ma non certo per concludersi. I tasti rec e stop si riducono a cesure su un flusso perenne, organizzatori di senso di una materia che non si riesce ad afferrare. Christensen ha lasciato intendere che a far scattare la reunion sia stata la dipartita di Mark Hollis, ma queste diafane melopee rimandano a scenari più narcoletticamente americani, con fermate nei motel dei primi Early Day Miners e dei Labradford. Nulla di troppo impegnativo comunque, anzi una mezz’oretta di musica che scorre facile e si lascia riascoltare volentieri, con il suo culmine nella dilatata title track centrale.
It’s only slowcore, ma di quello onesto, in un periodo in cui certo non fa tendenza. Rinnovarsi non è così indispensabile, quando si è tanto ostinati nella propria rarefatta missione. Una prova di coerenza che in fin dei conti suscita rispetto, e una salutare pausa dall’imperversante autismo di questo Stachanov del riverbero.
Tracklist
1. Safer
2. Breathe
3. Hold You Up
4. You Have It
5. Just An Unkind Time
6. America
[lo trovi anche su Ondarock]