“Terra degli incorruttibili”: questo il significato letterale di “Burkina Faso”. Nome parlante ideato nel 1983 da Thomas Sankara, forse il più grande rivoluzionario africano del XX secolo, sovrapponendo due delle oltre 60 lingue parlate nel paese (rispettivamente quella mòoré e quella dioula). Un posto ben diverso dalla maggior parte dei territori limitrofi, depredati da governanti corrotti ma comunque prodighi di risorse naturali: tra quei confini artificiali non c’è davvero niente, nemmeno lo sbocco sul mare che non si nega a nessuna nazione dell’Africa Occidentale. Una terra di passaggio più che di sosta, recintata senza riguardo da chi l’ha sfruttata per troppo tempo. La sua ricchezza, ben più invidiabile, sta proprio in quella fragile composizione etnica: un mosaico di culture e religioni che, miracolosamente, hanno per decenni convissuto in modo pacifico, pur sotto l’ombrello di un morigerato islam. Il francese è l’unica lingua ufficiale ma i burkinabé, mica scemi, nella vita quotidiana si tengono stretti i loro idiomi nativi.
Nel pensionare l’abominevole denominazione coloniale “Haute-Volta”, Sankara accostò quelle due parole per sottolineare il meticciato delle genti che si apprestava a governare, dopo due colpi di Stato e vent’anni di instabilità seguita all’indipendenza. Fece molto altro, evidentemente: denunciò per primo la piaga dell’AIDS, proibì le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni combinati, intavolò un memorabile discorso alle Nazioni Unite in cui rispedì al mittente il debito reclamato da Parigi, oltre a estendere a tappeto alfabetizzazione, sanità, trasporti. Nessun altro statista al mondo è riuscito a costruire così tanto con così pochi mezzi e in così poco tempo. Quattro anni dopo, con la regia della Liberia e la complicità di Mitterand e Reagan, verrà assassinato dal suo vice Blaise Compaoré, rimasto al potere fino al 2014, quando una rivolta a furor di popolo lo costrinse all’esilio. La nuova stagione di riforme fu presto scaraventata in soffitta dall’ennesimo golpe militare (poi rientrato) e dalla dilaniante offensiva jihadista ancora in corso, con l’esercito sempre più inadeguato nel contrastarla e il presidente eletto Kaboré a invocare un’inquietante chiamata alle armi collettiva. La Francia, tanto solerte nel trucidare Sankara, in questo caso ha preferito far finta di nulla. Il fiero popolo burkinabé è stato ancora una volta tradito dalla sua indegna classe politica e dal ponziopilatismo dei vecchi usurpatori, ma c’è da star sicuri che venderà cara la pelle.
Nonostante questo stato di tragedia permanente, il Burkina Faso è comunque riuscito a ritagliarsi un alveo culturale di tutto rispetto. Il paese è ben noto agli appassionati come epicentro del cinema continentale grazie al mitico FESPACO (Festival Panafricain du Cinéma de Ouagadougou, altra geniale trovata di Sankara) e a validissimi registi quali il compianto Idrissa Ouedraogoma, ma non va sottovalutata la sua vibrante tradizione musicale, che negli anni 70 trasformò la città di Bobo-Dioulasso in una centrifuga di ritmi highlife, rumba e funk, testimoniata da una serie di ottime antologie – una di esse, Bobo Yéyé: Belle Époque in Upper Volta, nel 2017 è stata candidata a ben due Grammy. Negli ultimi anni quella stessa città può ascriversi almeno un altro vanto: il deflagrante talento del quarantaduenne Mamadou Armel Konkobo, in arte Art Melody.
La sua è una storia dei nostri tempi: affascinato dall’Europa, provò a raggiungerla all’alba dei 2000 ma si ritrovò prima imprigionato in Algeria e poi rimandato a casa senza troppi convenevoli. Facendo di necessità virtù, saziò la sua fame di scoperta girando a tappeto gli stati confinanti (Costa D’Avorio, Mali, Mauritania) ed entrando in contatto con tantissimi artisti, da Angelique Kidjo a Seun Kuti. Dopo essere apparso nel bel documentario Tamani: A Day In Ouagadougou di Nicolas Guibert e Sébastien Gouverneur, nel 2009 ha avviato la propria carriera di rapper affiancandola a quella del progetto Waga 3000, in cui condivide onori e oneri con il notevole connazionale Joey Le Soldat. Il suo profilo è ben distante da quello di molti colleghi di casa nostra: padre di due figli, nella vita di tutti i giorni fa l’agricoltore, confermando il fortissimo attaccamento alla terra dell’etnia mossi a cui appartiene.
Sponsorizzato dalla label di Bordeuax Tentacule nella persona del beatmaker Redrum, ZOODO è il suo quinto album, a quattro anni da quel Moogho che fu colonna sonora delle manifestazioni anti-Compaoré. Il titolo sta per “amicizia” ma i contenuti sono tutt’altro che concilianti, a partire dal ringhiante caps lock. Come riferimenti indica Wu-Tang Clan, Mobb Deep e Busta Rhymes, ma la sua cifra sembra piuttosto ricollegabile alla guerriglia apocalittica di Dälek e Death Grips, che nell’assalto di BURKINDÃ arruola un’armata di archi e ottoni da far invidia a Chino Amobi. Poco spazio alle trame “destrutturate” per cui stravediamo in Occidente (la quali, detto fra noi, hanno sinceramente rotto le scatole): il suo flow è quadrato come un panzer e pesante come un basto, caserma che concede rare licenze (il rumorismo un po’ clipping. di TôK TôKO, la fumosa pigrizia cLOUDDEAD-iana di SÕNG MAAM, paradossale epilogo di un’opera sempre con la baionetta tra i denti).
L’Africa da cartolina che farebbe la gioia dei cacciatori di souvenir ci viene deliberatamente negata, al massimo confinandola in siparietti a mo’ di riserva naturale (GÉNÉRATION MOUTA MOUTA, MALI), quasi a voler stigmatizzare la nostra deprecabile sete di esotico. All’oleografia da esportazione preferisce semmai, sulle orme di Dr. Dre, una manciata di sani sample d’annata (SUGRÃ, ZOE WOGDOG).
A colpire in pieno petto è soprattutto la potenza della voce: rauca, purulenta, una mina sepolta nella terra che fu di George Clinton, Gil Scott-Heron e Gonjasufi, con gradevoli increspature reggaegianti. Dispiace non poter decifrare questa lingua strana e affascinante, che finisce in compenso per trasformarsi nel suono senza volto di una sommossa universale.
Mentre tra Londra e New York spadroneggiano sempre più griot autoproclamati con il loro patetico apparato di tuniche ricamate e nomi stile Nation Of Islam, il continente da cui tutto è partito risponde esibendo senza mezze misure la propria carne martoriata, traendone un incendiario messaggio di rivolta ma anche un indispensabile anelito di speranza.
Tracklist
1. BURKINDÃ
2. SUGRÃ
3. TôK TôKO
4. TI SÕNGRE SAE (feat. Will Dee)
5. SAÔNRÂ PUKAM
6. GÉNÉRATION MOUTA MOUTA (feat. Mama J & Mamadou Kondobo)
7. LIK N’GUESS
8. MALI
9. HIP HOP TÃSOBÊ SOODSE (feat. Anny Kassy)
10. ZOE WOGDOG (feat. Daitman Paweto)
11. TI PÃNG KETÊ (feat. Ami Rouge)
12. SÕNG MAAM
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