Suvvia, non meniamo il can per l’aia: se stasera siamo qui, non è certo per le funamboliche svirgolate del malcapitato Anthony Pirog. Una band come i Fugazi, visti i tempi, ci manca come il metadone nel bel mezzo di un’astinenza nera: qualche slogan rabbioso da urlare, un esempio nobile a cui riferirsi o semplicemente un po’ d’energia a darci la scossa. Chi ha raggiunto il Locomotiv in questa pigra serata tardo-primaverile è agitato da un bisogno simile: abbastanza mal riposto, se è vero che stiamo per assistere a un concerto strumentale.
Pur con tutta l’indulgenza del mondo e nonostante il ricattatorio marchio Dischord, il disco dell’anno scorso mi ha convinto a metà. La responsabilità è da scaricare ancora sul povero Pirog: ce ne vuole per penalizzare una delle sezioni ritmiche più micidiali del pianeta, ma quella chitarra è così invadente da far desiderare un apposito fader per sprofondarla nel mix. Confido, però, che il palco possa giovare a un progetto interplay-based, e non posso che apprezzare la mantenuta coerenza con la politica-Fugazi: 10 euro di biglietto tondi tondi. Quanto a me, cerco di fare la mia parte: non una goccia d’alcool in tutta la serata.
Il dj set a base June Of 44 (anche loro in tour in questi giorni) e l’iconica campana della microfonatissima batteria di Canty scaldano il cuore, un po’ meno l’opening solitario del modenese Giack Bazz che, in un locale ancora deserto, si presenta come “uno che suona canzoni tristi”: sottoscriviamo la sua dicitura. Una mezz’ora dopo il palco è pronto ad accogliere il trio: le scalette a pennarello fanno molti anni 90, le bottigliette a fianco delle postazioni contengono rigorosamente acqua. Il sobrio Precision di Lally si contrappone al tronfio caravanserraglio di Pirog (sorta di bolso J Mascis in flanella e cappellino con visiera): una quindicina di pedali e un’orrenda Jazzmaster gold modificata con pickup Di Marzio.
“Buonasera Bologna, come state?”, ci saluta Joe col suo italiano ancora impeccabile, per poi riassestarsi sul suo idioma nativo: “We’re the Messthetics and have some songs to play”. La prima, l’inedita Boredoms, è un assalto così irruento da sfondarmi i timpani, costringendomi ad arretrare dalla prima fila che mi ero guadagnato. La previsione è felicemente confermata: la leziosità della prova studio è spazzata via dalla carica che solo un concerto può restituire. Certo, Pirog si attira più di una maledizione col suo indugiare in un’asfissiante effettistica Cline-iana, confermandosi preferibile negli accompagnamenti piuttosto che nei soli, ma la potenza della premiata ditta Lally-Canty assesta un pugno sonoro non indifferente. Ho la certezza che non sarà il saggio da conservatorio che temevo, e per adesso tanto mi basta.
Il brano si tronca all’improvviso, subito rimpiazzato dal basso ipnotico di Mythomania, jazzcore che sa farsi in parti uguali desertico, metallico o indianeggiante e poi scomporsi in un chiasso assordante quando Canty picchia sulla campana. Il noise vetrato di The Assignement inaugura la pratica degli intermezzi tra un pezzo e l’altro e dà ulteriore spinta a una Quantum Path supersonica, con un’impressionante performance di quell’assassina macchina ritmica che è Canty.
Your Own World nebulizza quell’adrenalina in una nube psichedelica scandita dallo scampanellare di un crotalo, il fumo di un razzo che decolla solo con la successiva Inner Ocean, forse il numero più lirico del repertorio, notte piovosa riflessa su uno sconsolato arpeggio di basso, con Pirog all’altezza nei panni di un liquido Bill Frisell 2.0. Dal post-rock si regredisce al post-hardcore di Wipers, con un lavoro di cassa che sposta l’aria come una turbina e una chitarra che, sì, trapana duro come quella di Greg Sage. Poche tracce byrniane, invece, nell’orientaleggiante Talking Heads, anticipata dalla breve e altrettanto atmosferica Cloop ma presto polverizzata dalla tambureggiante grattugia di Sixes e dal blues dispari di Sevens, con un’abrasiva spuma di tremolo.
Lo slowcore oceanico di Ambient I torna ad acquietare gli animi scagliando pesanti massi doom che si sbriciolano in taglienti sampietrini nella sfuriata di Serpent Tongue, suonata con tanta foga che Canty perde una bacchetta. Ed è proprio lui a ringraziarci per la nostra calorosa presenza, con l’umiltà che l’ha sempre contraddistinto (“We really appreciate, we’ve come a long way…”), ricompensandoci con lo stoner felpato di Radiation Fog fuso a una dinamicissima Crowds And Power in più tempi (spirale anfetaminica alla Tool, duello western, rallentamento al cardiopalmo).
Fa per andarsene ma gli altri due rimangono ad accordare. “So we’re going to play one more?”, finge di stupirsi, e il non-bis è un vero regalo: l’attacco di Funk è così fugazziano che qualche esaltato crede di scorgervi chissà quale brano minore del gruppo madre, poi la fabbrica collassa in uno swing che, a sua volta, si smembra in un’improvvisazione dinoccolata fatta precipitare lungo un versante montuoso. Ci mettiamo un po’ a realizzare che stiamo ascoltando un medley, con incastonate dentro due graditissime sorprese: Black Satin di Miles Davis e School Work di Ornette Coleman, sentito tributo tanti ai propri modelli quanto alla propria creatività e bravura.
Alti volumi, gran suono, tanta energia: cos’altro chiedere a un concerto rock, seppur suonato con precisione da jazzisti? Qualcosa mi dice che la tanto agognata reunion ce la possiamo scordare, ma in fondo poco male: come muto succedaneo, questi Messthetics valgon bene una barricata.
Setlist
1. Boredoms
2. Mythomania
3. The Assignment
4. Quantum Path
5. Your Own World/Inner Ocean
6. Wipers
7. Cloop
8. Talking Heads
9. Sixes
10. Sevens
11. Ambient I
12. Serpent Tongue
13. Radiation Fog
14. Crowds And Power
15. Black Satin/School Work/Funk
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