Non era scontato rivederli tutti e cinque sullo stesso palco, dopo 30 anni di autoimposto silenzio durante i quali il mondo – antagonista e non – è stato rivoltato come un calzino. E invece eccoli qua, di nuovo insieme nella loro amata/odiata Torino, anche se solo per una sera. Non una reunion nostalgica per crogiolarsi nei ricordi, ma un evento con una precisa finalità: presentare in grande stile “Magazzini Franti“, corposo database on line in cui reperire tutto quanto la più importante band indipendente italiana ha disseminato nel corso degli anni sui vari media, ovviamente gratis, come il concerto di stasera.
Via Po non è un posto qualunque: a una manciata di civici dal Blah Blah sorgeva quel maledetto Angelo Azzurro dove, il primo ottobre 1977, si consumò la fine simbolica del più vasto movimento politico-culturale occidentale. Vengo accolto da Luca Buonaguidi, loro giovane biografo, che ha assistito al soundcheck e non sta più nella pelle: “Una bomba! Sono in forma, stasera menano!”. Sotto il palco trovo Stefano Giaccone, con cui avevo preso accordi il giorno prima: “Preferite prima o dopo il concerto?”, gli chiedo. “Stasera suoneremo due volte per permettere a tutti di assistere, quindi direi ora o mai più”.
Raduna la truppa a un tavolo vicino al palco: Vanni Gio Picciuolo, Massimo D’Ambrosio e Marco Ciari tutto sembrano tranne che reduci abbattuti, e i capelli bianchi non bastano a spegnere degli occhi ancora brucianti di vita. Dall’inizio alla fine giocheranno a farsi dispetti a vicenda, dimostrando come integrità e (auto)ironia possano e debbano andare di pari passo. Lalli, per sua stessa ammissione, è stanca dopo il lungo soundcheck: pur presenziando all’intera intervista, preferirà non intervenire. Intanto, il dj set in sottofondo passa di fila i Social Distortion e Bob Dylan: un accostamento, come dire, alla Franti.
Alla faccia del “No dreams, no future”, siete di nuovo qua a farci sognare. Se una band come voi, che ha fatto della coerenza una bandiera, decide di tornare sui propri passi, deve esserci una ragione importante: solo “Magazzini Franti” o c’è dell’altro?
MASSIMO: La cosa è partita sicuramente da “Magazzini Franti”, cioè dall’esigenza di gestire in una maniera coerente tutto il nostro archivio del periodo, per uno scopo ben preciso: non far cadere nel dimenticatoio un’esperienza che consideriamo importante, almeno per noi. Da lì abbiamo deciso…
VANNI: HAI deciso…
MASSIMO: Ok, HO deciso di fare questo concerto, e lì è entrata in campo la voglia di suonare insieme di nuovo, anche se allo stato attuale non avrà altre conseguenze, rimarrà legata a questo evento. Mi piacciono queste incursioni, ogni 20-25 anni si possono fare…
Ce n’era già stata un’altra, se non erro…
MASSIMO: Nel 2005 in occasione della ristampa di Non Classificato, ma non c’era Vanni, quindi con questa formazione non suoniamo dal 1989, trent’anni fa…
Anno in cui, tra le altre cose, venne al mondo il sottoscritto, anche se immagino non sia l’evento più rilevante del periodo. Quindi deduco che non ci sarà un seguito?
MASSIMO: No, attualmente non è un’idea all’ordine del giorno, ma chi vivrà vedrà. Ci fossero delle occasioni che qualcuno di noi riterrà valide, potrà provare a proporle a questa sorta di collettivo, anche se è una parola un po’ desueta… Questa volta è andata proprio così: uno di noi ha fatto una proposta, ci siamo sentiti e l’abbiamo approvata. Sono canali sempre aperti, almeno finché non ci prendiamo a mazzate…
VANNI: La cosa importante è che adesso, finalmente, c’è questo malloppone di materiale prodotto in quegli anni a disposizione di tutti, al di là del feticismo degli oggetti fisici. La cosa buffa è che in giro ci sono dischi che noi ci scannavamo per ridurli di 100-200 lire, e che adesso trovi a prezzi terribili, perché siamo caduti come dei fessacchiotti nella trappola della valorizzazione di un prodotto raro: essendo usciti con una tiratura molto limitata, adesso hanno un prezzo bestiale. Un po’ come il cesso rovesciato di Duchamp, o i prodotti degli impressionisti, compagni rivoluzionari che parteciparono alla Comune e dipingevano soggetti terribili, ma i cui prodotti sono finiti scambiati da borghesacci di merda a colpi di miliardi… Van Gogh non ha mai venduto un quadro in vita sua, li barattava per poter mangiare il giorno dopo, è una cosa incredibile se uno ci pensa. Noi abbiamo voluto fare uno sforzo per spazzare questo discorso qua: la roba è lì, chi vuole se la piglia, e vaffanculo.
Che effetto vi fanno questi Franti involontariamente ridotti a merce per collezionisti, cioè tutto ciò che avete sempre disprezzato?
VANNI: A me fa schifo, difatti quello che stiamo cercando di fare va contro questa tendenza.
Anche perché, se non sbaglio, fu uno dei motivi della separazione: non cadere nelle maglie di un mercato che combattevate apertamente…
VANNI: Sì, insieme ad alcuni problemi interpersonali e a un normale logorio.
Parliamo di questo scioglimento così solenne, che mi ha sempre ricordato quello dei Crass: pur di non soccombere a una logica che non si condivide, si preferisce implodere.
STEFANO: Non solo. Come diceva Vanni, si sono sovrapposte direzioni e attitudini diversificate. Come generazione biografica e ideal-politica veniamo dagli anni 70, e quindi da un discorso che si connetteva con la lunga tradizione del movimento operaio, sindacale e resistenziale, seppur in modo critico, e ognuno con modalità diverse. Franti è stato l’incontro fra due atomi: uno proveniente da un liceo scientifico, e l’altro da un ambiente politico, con un paio di anni in più.
VANNI: Io facevo le scuole tecniche, ero davvero un proletario, non è che me la tiravo come loro…
STEFANO: Esatto, non era un liceale di merda come noi… Vabbè, questa la tagli, sì?
Ma no, è un momento bellissimo, vero, da birreria d’altri tempi! (ridiamo)
STEFANO: Credo che per capire Franti bisogna sempre tenere presente il rapporto tra noi cinque (ma anche sei, sette, otto: come sai, non eravamo un gruppo chiuso) e il mondo del movimento, perché parliamo di anni di enorme trasformazione, direi anche di catastrofe all’orizzonte. Nell’82, quando iniziammo a suonare come Franti, l’Italia era il paese al mondo con più prigionieri politici, dopo l’Unione Sovietica. Era una situazione da guerra civile, nella quale noi abbiamo in qualche modo rappresentato un ponte: mentre andava sotto traccia il movimento di piazza, noi in controtendenza siamo andati ad abitare insieme.
Anche in questa idea di comune autosufficiente mi avete sempre ricordato i Crass. In generale, vi ho sempre immaginato come l’anello di congiunzione tra i Crass e gli Area, non so se vi ritrovate in questo paragone ingombrante…
STEFANO: Sì, se vuoi sì… Diciamo che mentre il nostro movimento di provenienza finiva in gattabuia, sotto terra o nelle braccia dell’eroina, venivano fuori gli squat, le situazioni di Berlino e Amsterdam, e ovviamente il punk. Attraverso il gruppo trovammo un modo per proseguire un’iniziativa collettiva. Non eravamo qualcosa di chiuso, non c’è mai stata un’uniforme o l’attitudine da artista nella torre d’avorio. E’ una cosa che capisci proprio dalla nostra musica: ieri ci siamo esibiti in radio, davanti a persone con un’età media di 25 anni che conoscevano le nostre cose, ma ci guardavano come dire “questi suonano di tutto, passano da uno stile all’altro…”. Vanni ha spesso utilizzato l’immagine di una Polaroid: una cosa veloce, che perde i colori e che puoi modificare, non un’immagine scolpita. Una cosa punk… A Torino e anche altrove ho spesso incontrato persone che mi hanno detto di avere una strana sensazione con le nostre canzoni, del tipo “a volte penso di averle scritte io”, e in un certo senso è così. Lo vedi anche adesso andando a leggere i commenti sotto i video di Youtube: un sacco di gente va a vederli e scrive cose molto belle, tipo che il sassofonista è un figo…
VANNI: Soprattutto quando non suona…
STEFANO: Scherzi a parte, non mi piace parlare di identità, ma in qualche modo emerge un senso comunitario, un riconoscimento.
VANNI: C’è una scena di un film di Tarkovskij in cui una ragazza deve attraversare una piscina con una candela accesa, e se la candela non si spegne allora si avvererà il Bene…
Nostalghia.
VANNI: Bravissimo. Noi ci si vedeva un po’ così: gente che stava attraversando un lago ghiacciato con questa candelina in mano, dicendoci “vediamo cosa succede”. Il sentimento collettivo era parecchio deprimente. Al di là degli yuppie e della “Milano da bere”, sono stati gli anni della catastrofe: la marcia dei 40.000, l’arretramento di tutto un fronte di lotta comune, si è disgregata la classe sociale ed è andato tutto a puttane, e tutto ciò è stato fatto scientemente. Noi abbiamo vissuto questa roba qua cercando di dargli un senso, anche a livello personale.
Difatti una cosa che trovo particolarmente segnante della vostra musica, ancora adesso, è questo senso di tragedia non solo collettiva (sociale, politica, storica), ma anche individuale, esistenziale… L’angoscia della new wave e la rabbia del punk, potremmo dire: per questo penso siate stati davvero il gruppo-simbolo di quella fase.
VANNI: Ricordo che allora qualcuno chiedeva sempre “Ma perché ti vesti sempre di nero?”, e io rispondevo “Scusa, di cosa vuoi essere contento?”. Era un funerale continuo, c’era morte dappertutto, ideale e non. Non era tanto un richiamo ideologico all’anarchia e ancora meno al fascismo, era il colore del lutto. Non ero dark, ero in lutto. Anche gli esistenzialisti si vestivano di nero d’altronde, non si mettevano mica fiorellini addosso. Ci sono periodi in cui grandi masse di uomini attraversano fenomeni che li marchiano, poi chi ha gli strumenti, la sensibilità e l’attitudine li traduce in musica, in un libro o in un film. Mi piace ancora un casino l’immagine di Marx, quella del baco che fa la seta. Un essere umano deve fuggire dalla gabbia del ruolo che gli cuciono addosso e ricomporre la sua identità, dando spazio a ciò che vuole essere al di là di ciò che gli viene imposto. Sono in fabbrica? E chi cazzo ha detto che in fabbrica non posso dipingere o occuparmi di politica? Tornare a una dimensione umana che si prefigura come un aldilà: ti verrà sempre detto che la tua è un’utopia, quindi devi cercare di sognare e progettare ipotesi, perché il mondo così com’è è una galera assurda, fin nella testa della gente. Anche nella mia: io sono pieno di muri, di casini, e pensa quanti ce ne possono essere se mettiamo insieme le nostre cinque teste…
Prima avete accennato al fatto che chi vi ascolta rimane spiazzato da questa commistione di linguaggi a 360°, coerente ma davvero vasta: “hardcore folk”, per usare la vostra definizione. Quello che mi ha sempre sorpreso è che ciò avveniva sì negli anni della new wave e quindi della contaminazione assoluta, ma pure dell’ortodossia politica, soprattutto in Italia… In che maniera un gruppo militante come voi riusciva a mettere dentro cose tanto diverse e addirittura contraddittorie, riuscendo però a farsi anche “accettare” con una proposta così dirompente e poco allineata?
VANNI: Sostanzialmente abbiamo sempre cercato di smarcarci da noi stessi. Tutti quanti con le nostre storie abbiamo sempre avuto un rapporto conflittuale col piano organizzativo e le gerarchie, anche della sinistra extra-parlamentare. Là dentro c’era la tendenza a riproporre schemi piegati alla tecnica classica: se vuoi fare la rivoluzione devi organizzarti, avere un centro di coordinamento strutturato, distribuire volantini e piano piano costruire un’organizzazione che poi diventa un partito, ricadendo nel problema di partenza. Noi con questa roba abbiamo avuto un rapporto estremamente problematico, quindi l’ortodossia c’è sempre stata stretta.
Parliamo della città che vi ha generato, non esattamente una qualsiasi… Che posto era, e com’è cambiato?
VANNI: Negli anni 70 la FIAT Mirafiori era la più grande concentrazione operaia d’Europa: per trovare cose simili dovevi andare in Polonia, ed era sempre la FIAT. La vita quotidiana della città era assolutamente scandita dai tempi della grande fabbrica, che condizionava qualsiasi cosa. Questa ciclopica concentrazione di più di 80.000 operai trascinava un indotto spaventoso di officine, e non solo: se prendi una carta di Torino e cominci a colorare in blu i territori della produzione FIAT, i possedimenti immobiliari della FIAT, le case della FIAT, ti rendi conto che non rimane più un cazzo di niente. Non è un caso che il primo essere umano visto dalla Appendino appena si è profilata vincitrice è stato John Elkann, che probabilmente l’ha strigliata e le ha fatto capire un paio di cose… E’ sparita subito l’idea che potessero essere propositivi di qualche cosa, sono stati piallati immediatamente. Non so se noti, è un’attitudine che c’è sempre stata: qua chiunque viene in punta di piedi, da Berlusconi a Grillo, tutti si levano le scarpe e vanno a genuflettersi dagli Agnelli. La realtà torinese dal punto di vista della struttura del potere italiano è importantissima, da quello di chi ci ha vissuto un bordello totale.
L’ho sempre vista come la Detroit italiana: la Mecca operaia che decade e diventa culla di malessere…
VANNI: Esatto, e ciò che non è facile da comunicare a chi non c’è stato è la dimensione onnicomprensiva di questo. Il turno operaio condizionava tutto: a certe ore non c’era più nessuno in giro, erano tutti stravolti dalla stanchezza. Era un ritmo scandito dalla fabbrica, che poi non era una fabbrica normale ma una roba organizzata in modo prussiano, un esercito, o un ergastolo se preferisci. Chi si muoveva veniva immediatamente marchiato. E’ chiaro che quando lì dentro è esploso il conflitto è come quando tieni il gas compresso: bum!, e viene fuori di tutto. Ma già nell’80, con la marcia dei 40.000, tutto è stato riassorbito. Lama lo fece scrivere a Romiti quel contratto, tanto ormai si davano del tu: capisci dove eravamo arrivati?
Già… La scelta di sciogliervi, col senno di poi, la rimpiangete o non si poteva fare altrimenti?
MASSIMO: Io sono tra quelli che ha patito tantissimo questa scelta, sono una persona molto emotiva…
STEFANO: Mah insomma, a me sembri un animale…
MASSIMO: Come puoi notare, con Stefano c’era un legame profondo, dal ’76 abbiamo condiviso tutto, eravamo compagni di classe. Col senno di poi bisogna riconoscere che il mondo stava cambiando e soprattutto stavano mancando i terreni su cui il progetto Franti si era mosso. Tutto quel pianeta si stava disgregando, o meglio stava prendendo delle forme particolari, risucchiato da altro. E’ stata una decisione che aveva un senso, questo è il lato razionale. Il lato emotivo però fu una perdita, come quando finisce un fidanzamento…
STEFANO: E’ una frase fatta, ma secondo me i rimpianti sono inutili e fanno anche molto male, mentre rimorsi e sensi di colpa appartengono di più alla nostra educazione cattolica.
VANNI: C’è un proverbio arabo che dice “un rimpianto è come un bambino morto che ti marcisce nella mente”…
STEFANO: Vabbè, dopo una sentenza del genere mi sento stupido ad aggiungere qualcosa… Diciamo che il rimpianto principale, anche se non lo chiamerei così, è che potevamo comportarci diversamente, magari mettendo tutto in frigo per sei mesi, ma credo che a bocce ferme avremmo comunque preso la stessa decisione.
Anche perché una mossa così timida e prudente non sarebbe stata da voi…
STEFANO: Sai come diceva il presidente Mao: quando manca l’acqua per far nuotare il pesciolino… Visto, anche io posso fare citazioni importanti, mica solo Vanni! In quel momento ci saremmo dovuti individualizzare come gruppo, in una situazione ormai inaridita. Avremmo dovuto fare un salto in una visione di noi altri come gruppo artistico separato da tutto, che si muoveva in un mondo ostile come quello dell’intrattenimento musicale, nel quale avremmo incontrato molte difficoltà. Poi personalmente mi sono sempre trovato a disagio con le persone che hanno identificato un movimento collettivo con la loro persona, difatti credo che del punk ne abbiano parlato e scritto le persone meno interessanti. (Nel frattempo il dj passa “Troppo Lontano”) Ascolta, i Kina!
Con loro vi sentite ancora?
STEFANO: (indicando un tavolo alla fine della sala) Gianpiero, il bassista, è là.
VANNI: (urlando verso il suddetto tavolo, citando il testo della canzone) Ci dev’essere qualcuno là fuori! Qualcuno che parla, che dice qualcosa! Dai parla, dì qualcosa! (Gianpiero si sbellica dalle risate)
Vabbè, meraviglioso.
STEFANO: Vanni, perché a volte parli con l’accento sardo?
VANNI: Mi viene così, d’altronde ho fatto pezzi di naja fantastici con i sardi…
Questa storia dei sardi in caserma me l’hanno raccontata un po’ tutti…
VANNI: Eh vabbè, sono una potenza, è come se ci fosse un campo magnetico e immediatamente vedi i sardi a far combutta contro tutti! Sono così anche i bergamaschi, tipo colla: toccane uno e te ne arrivano addosso quindici…
‘Sta maledetta naja che, ci piaccia o no, ha fatto l’Italia…
STEFANO: Vanni, io però stavo dicendo delle cose interessanti…
VANNI: Questo lo dici tu…
Ci tenevo a dirvi che adoro questo clima autodissacrante, anche perché è evidente che vi volete bene…
VANNI: Io faccio finta…
STEFANO: Ecco, questa fratellanza tra di noi, in una situazione da ultimo soldato giapponese come quella, ci ha permesso di affrontare molti momenti difficili, ma l’avremmo messa a rischio se ci fossimo spinti oltre. Nessuno di noi comunque è diventato un musicista professionista, loro perché essendo scarsi non potevano, mentre la mia è stata una scelta da compagno duro. (ridiamo) Abbiamo proseguito facendo la gincana con le cose della vita, a partire dal lavoro, dall’età che avanzava e da una situazione intorno a noi in cui veniva richiesto un adattamento. Io sin da giovanissimo ho ascoltato soprattutto jazz, e quando ho iniziato ad approcciare la new wave mi sono subito accorto di quanto fosse rigido il modo di intendere le cose negli anni 80, anche in Italia. Dovevi tassativamente sfornare quei quaranta minuti con uno stile identico, che ti rendeva identificabile: Echo & The Bunnymen fanno questo, Siouxsie & The Banshees fanno quello, ecc… Cassa in quattro, suono di chitarra di un certo tipo, dischi che iniziano e finiscono in un certo modo. Ecco, il nostro modo di procedere è stato diametralmente opposto: una cosa a cui dedicavamo molto tempo, ad esempio, era la sequenza delle canzoni sugli album.
Che infatti hanno questa tensione quasi narrativa…
STEFANO: Esatto, ad esempio utilizzando spesso brani introduttivi, per farti entrare in una determinata atmosfera. Non siamo mai stati dei provocatori, non era quella la nostra cifra.
Anzi c’era molto lirismo, e forse anche per questo siete invecchiati molto meglio di altre band dell’epoca.
STEFANO: Sì, poi io non parlo mai di estetica…
VANNI: Ma se non fai altro che parlare di estetica!
STEFANO: Ma non è vero, al massimo ne parlo al bar… Comunque, qualcuno ci ha paragonato ai Velvet Underground, e secondo me un punto di contatto c’è in questo senso: erano musicisti che provenivano da esperienze molto diverse che avevano un collante a monte, in quel caso Warhol e la Factory. Nei loro due dischi più caratteristici…
VANNI: Lo vedi che parla di estetica!
STEFANO: Ho detto i più caratteristici, non i più belli!
In altri tempi ti avrebbero accusato di formalismo!
STEFANO: Ebbene sì, sono un formalista! (ridiamo) Comunque, dicevo: anche loro avevano questa capacità di passare da una canzone molto cruda sull’eroina a ballate pop meravigliose…
Tra l’altro, la vostra versione di Femme Fatale secondo me è la più coraggiosa mai fatta, la preferisco anche a quella dei Big Star: siete gli unici che hanno osato profanarla, senza nemmeno provarci a riprodurre l’originale.
VANNI: Che botta quella cover, eh?
Ma tutte le vostre cover sono strepitose per questo stesso motivo, penso anche a Gates Of Eden: prendere una cosa e spanciarla con violenza…
STEFANO: Ecco, questo è un punto importante: io non ho mai avuto deferenza per niente e nessuno, e non è un discorso da spaccone anarchico.
Insomma, tirando le somme, ne è valsa la pena di essere Franti?
VANNI: Cazzo se ne è valsa la pena! (ridiamo)
STEFANO: Anche perché è qualcosa che ha attraversato tutta la nostra vita, e siamo ancora qua stasera…
VANNI: Che poi, nonostante la rottura, in realtà abbiamo continuato a suonare tutti assieme, almeno per un certo periodo. Certo, era una realtà di grossa discussione, e lo vedi anche ora: appena lui arriva a dire qualcosa io gli do subito in testa…
A tratti sembra una vecchia assemblea di partito…
VANNI: Poi dopo la separazione ognuno è schizzato verso le proprie inclinazioni personali, come un cane sguinzagliato. Io per esempio ho iniziato a far casino col mio chitarrone, finalmente libero di delirare, ma poi per circa quindici anni non ho più toccato uno strumento né ascoltato musica. In compenso ho imparato a fare altre cose, ad esempio sono diventato un buon tiratore…
E’ interessante questa cosa che hai iniziato a sparare una volta finita l’epoca in cui si sparava…
VANNI: Già, a cinquant’anni. Avevo finalmente l’età giusta per farlo.
Ultima domanda, magari un po’ sciocca: in qualche maniera, con l’epopea della Blu Bus avete anticipato questi anni di autoproduzione pervasiva, e anche le vostre riflessioni anti-copyright e anti-SIAE sono adesso materia di dibattito diffuso…
STEFANO: Guarda, io non mi definirei un pioniere, nel senso che c’erano tante altre situazioni simili, anzi per ragioni di età noi forse siamo arrivati un po’ dopo. E’ da quando è iniziato il lavoro con i Kina che l’etichetta è partita per davvero.
VANNI: In generale c’era questa selezione che avveniva sul territorio, tra le persone. Trovavi un gruppo con cui si creava una sintonia espressiva e produttiva, e lì partiva la sinergia. D’altronde c’era una dimensione collettiva in cui si condivideva tutto, dovunque andavi c’era gente, ci si confrontava sempre con qualcuno. Poi personalmente il lavoro della Blu Bus l’ho sempre seguito poco perché voleva dire farsi un culo incommensurabile e io sono molto pigro, per cui se lo sono sparato di più Stefano e Lalli. E’ un po’ il discorso che facevo prima: la società è organizzata per schiacciarti, quindi più o meno ingenuamente decidi di produrre da solo le tue cose e avere il controllo di tutti i passaggi, ma questo implica confrontarsi con la divisione del lavoro specializzato e sei di nuovo fregato, perché la società è già passata di lì cinquant’anni prima. Quando, come loro, ti sbatti completamente da solo a un certo punto sei costretto a smettere di suonare, perché o fai una cosa o l’altra, ti manca proprio il tempo materiale.
Mi sembra ci siano dei ruoli ben delineati nel vostro organigramma, che potremmo riassumere con un titolo da spaghetti western: Vanni è il marxista ortodosso, Massimo il romantico, Stefano il cinico.
STEFANO: Ma io non sono cinico! Io prima di tutto sono del Toro. (ridiamo) E comunque parlando di marxismo Vanni lo distruggo…
VANNI: Ti straccio cinque a zero, su qualsiasi pezzo… Comunque, dicevo: facendo un discorso più filosofico, tutti gli individui sono interconnessi con la società attraverso il linguaggio, la cultura e la storia. Nel nostro sistema produttivo questa interconnessione è così capillare che l’individuo praticamente non esiste: siamo nodi, incroci di determinazioni eterodirette. Lo sforzo che devi fare individualmente per contrastare questa roba è enorme, e spesso finisce sconfitto. Io uso spesso questa immagine: pensa a un’onda, una di quelle enormi da surfisti, che sta andando verso la spiaggia; tu sei una goccia di schiuma dentro questa onda, e per una frazione di secondo dici “Io vado da quella parte” e ne sei convinto, ma l’onda sta andando a ottanta chilometri all’ora nella direzione opposta, e quando sarai morto e sepolto lei proseguirà da quella parte. Forse sono diventato un po’ pessimista, ma voglio farti capire quanta tenacia e forza c’è stata in un’attività come la Blu Bus, che è stata eroica e non è abbastanza riconosciuta.
Meglio così, non siete diventati una temibile “band di culto”, riuscendo miracolosamente a preservare la vostra nicchia…
VANNI: Una cripta la definirei! (ridiamo)
STEFANO: Sì, nel senso che siamo criptici…
Comunque, la mia domanda era: in questi tempi che sono anche figli vostri, sarebbe plausibile un progetto alla Franti?
STEFANO: Certo, è sempre plausibile. Andrebbe aggiornato alle condizioni attuali, ma si può sempre fare.
(continua qui)
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Grazie la leggerò con calma. Bene risentire i Franti.
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