[Ascolti_Reissue] Beverly Glenn-Copeland – Beverly Copeland (Return To Analog, 1970/2018)

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Ma quanto ci piacciono le riscoperte tardive di outsider obliati? La rinascita artistica di Beverly Glenn-Copeland non poteva avvenire in un momento più propizio, data l’estrema sensazione suscitata da storie come la sua su una generazione affamata di beautiful looser. Qualche coordinata: afroamericana di Filadelfia trapiantata in Ontario, incide nel 1970 due deliziosi dischi omonimi di psych-folk jazzato, per poi sparire dalle scene. Riappare sedici anni dopo in una veste del tutto diversa, e ci consegna un autentico gioiello, Keyboard Fantasies: un piccolo capolavoro di perlacea new age ecologista, in cui la sua voce da brividi si libra su un soffice tappeto elettronico ottenuto con il solo ausilio di un sintetizzatore Yamaha DX7 e una drum machine Roland TR-707. Un lavoro ascetico che, ancora oggi, echeggia profondità insondate, ammaliante e inclassificabile, raccogliendo la scia di un’altra grande electronic woman: Suzanne Ciani.

Tra una cosa e l’altra, fa un po’ di tutto: collabora con artisti del calibro di Bruce Cockburn, compone temi musicali per Sesame Street, appare per tre decadi nei programmi per bambini “Mr. Dressup” e “Shining Time Station”, si converte al buddhismo. Nel 2002 scende a patti con la propria identità di genere con conseguente transizione, semplificata dall’avere un nome che può essere sia maschile sia femminile e da un profilo artistico così fluido da scardinare qualsiasi polarità. Nel frattempo, Keyboard Fantasies è diventato a sua insaputa un cult tra i collezionisti. Nel 2015 l’immancabile giapponese fanatico riesce a mettersi in contatto con Beverly e, grazie alla label canadese Invisible City Editions, due anni dopo il disco torna nei negozi, scatenando una nuova ondata di entusiasmo. Sempre nel 2017 viene ristampato anche il secondo album, mentre l’anno dopo è il turno del primo. Una trionfale apparizione al Le Guess Who? di Utrecht, nel novembre 2018, ne rilancia una volta per tutte la carriera, trasformandolo a 74 anni nell’ennesimo redivivo Rodriguez/Charles Bradley/Lonnie Holley (strano che non ci abbiano ancora girato un documentario…) e consacrandolo come canuta icona queer.

Bella storia, no? E per una volta, la qualità musicale è all’altezza della vicenda personale. Meno annichilente rispetto all’irripetibile gemma dell’86, appena un gradino sotto il più elegante seguito, questo primo album rimane comunque un pregevolissimo esercizio di musica d’autore liberata. Contesa tra il contralto aristocratico di Joni Mitchell e i sofferti capogiri di Tim Buckley, è il parto di un talento cristallino, in linea con le punte più avanzate della sua epoca ma proiettato in una biosfera tutta sua (Interval potrebbe essere una outtake da Laughing Stock), con una volubilità da anemoscopio in estasi: bastino a provarlo le due contrapposte versioni di Don’t Despair che aprono e chiudono, testimonianza di una personalità tanto solida quanto sfumata.

Tracklist
1. Don’t Despair
2. Untitled (Make The Answer “Yes”)
3. Song For Beads
4. Nothing Beautiful
5. Good Morning Blues
6. Durocher
7. Northwind
8. Sword Of God
9. Interval
10. Reflections
11. Don’t Despair (Jazz version)

[lo trovi anche su Ondarock]

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