[Ascolti_Reissue] Hampton Grease Band – Music To Eat (Real Gone, 1971/2018)

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La ascoltereste una band che include nel suo organico una motosega? Andreste al concerto di un quintetto che, anziché suonare, mangia cereali o guarda la tv sul palco? Continuereste ad ascoltarlo se iniziasse a tirarvi addosso delle sedie senza alcun motivo? Se avete risposto di sì a tutte le domande, la Hampton Grease Band potrebbe seriamente diventare il vostro gruppo preferito. Ma partiamo dall’inizio…
A fine anni 60 Atlanta non è ancora la “Black Mecca” che conosciamo oggi: un covo di bifolchi del sud e poco altro. Sotto il profilo musicale, una scena locale praticamente non esiste, e le uniche attrazioni sono le occasionali incursioni delle superstar più blasonate: Allman Brothers, Three Dog Night, Fleetwood Mac, Procol Harum, Grateful Dead, Jimi Hendrix. Concerti che rimarrebbero tappe minori all’interno di tour come tanti, se non fosse per il gruppo di apertura: un collettivo di musicisti a dir poco sui generis, il cui unico scopo è scatenare un caos antitetico con la monotonia delle loro vite.

Le performance includono le bizzarrie citate all’inizio e molto altro, ma soprattutto si basano su una musica largamente improvvisata, in cui può accadere di tutto o quasi, con testi ricavati dalle istruzioni di una bomboletta spray o sfogliando un’enciclopedia. I cinque non sono degli intellettuali ma dei semplici pazzi da legare: più che spettacoli d’avanguardia o provocazioni hippie, quelle esibizioni sono scatenate messe in scena della loro follia. Allo stesso modo, le “canzoni” non hanno nulla di lisergico o immaginifico, ricordando piuttosto una versione dadaista delle jam-band Southern che imperversano in quegli anni: una parodia della musica che sono costretti ad ascoltare (a partire dal nome, sudista fino al midollo), collage sbilenchi in cui blues, jazz, country e bluegrass vengono scomposti e reincollati in maniera precaria.

Gli show di questa comune assatanata diventano così famigerati da incuriosire addirittura la Columbia, che decide di metterli sotto contratto. Decisione appartemente scriteriata, tuttavia comprensibile in quel florido periodo: parliamo di anni caratterizzati da una diffusa voglia di inconsueto, in cui anche alle major piace lanciarsi in scommesse sopra le righe, contando su un mercato che avrebbe tamponato anche il più catastrofico flop. Ed è così che i nostri eroi si ritrovano nelle mani ben 75.000 dollari (!) per mettere su disco “quella roba là”. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio: per tenerli a freno impongono il futuro scrittore Thomas McNamee come assistente di studio, con il preciso compito di domare le fiere nel caso scavalcassero le gabbie. Ma hanno fatto male i conti: non sanno infatti che quest’ultimo è amico e fan del gruppo, e la sua “supervisione” consisterà nel non interferire in alcun modo.

Viene fuori qualcosa di eccessivo anche per gli standard dell’epoca: 88 minuti di delirio articolato in sole sette canzoni (tre suite di 20 minuti, altre due appena più educate, più un paio di miniature tanto per confondere le idee) e un titolo altrettanto patafisico, Music To Eat. McNamee viene licenziato in tronco, ma la casa discografica intende coronare il progetto in grande stile: l’uscita viene non solo confermata ma addirittura impacchettata in due vinili, rendendolo uno dei rarissimi esordi doppi della storia del rock. Piccolo dettaglio: l’etichetta non si impegna minimamente nella promozione, abbandonandolo al suo destino dopo averlo messo in commercio nel 1971 nella fantasiosa categoria “comedy album”. La tattica della label, col senno di poi, è diabolica: nella remota ipotesi in cui le vendite non colassero a picco, si ritroverebbero in catalogo un prodotto insolito per solleticare gli intenditori; se, più verosimilmente, andassero maluccio, la carriera del gruppo sarebbe stroncata sul nascere, e con essa gli eventuali strascichi per il marchio. Dar loro corda a volontà, sperando che s’impicchino.

E così sia: Music To Eat è a tutt’oggi il secondo disco meno venduto della storia della Columbia, battuto solo dalla lezione di yoga di Maharishi Mahesh Yogi. Manco a dirlo, rimarrà il loro primo e ultimo lavoro. La band proverà a rilanciarsi entrando alla corte di Frank Zappa (ci sono anche loro sul palco del Fillmore la sera in cui si aggregano John & Yoko), per poi disintegrarsi di lì a poco. Tutti rimarranno comunque attivi, a partire dal frontman Bruce Hampton: dopo aver fallito un provino per entrare nelle Mothers Of Invention, si rifarà la verginità suonando con svariate formazioni dai nomi improbabili (Aquarium Rescue Unit, Late Bronze Age, Quark Alliance, tra le altre). Riformerà gli HGB nel 2006 per un’unica data ad Atlanta, documentata in un Dvd uscito per la Sheila Green due anni dopo. Ci ha lasciati l’anno scorso, in una maniera crudelmente coerente con la sua poetica bislacca: falciato da un infarto sul palco, durante un concerto per i suoi 70 anni, con gli accompagnatori a suonare imperterriti credendola l’ennesima burla.

La ciurma e il suo capitano non ci sono più, ma il disco per fortuna possiamo ancora ascoltarlo. Introvabile per anni, è stato ristampato in Cd nel 1996… dalla Columbia! Per salutare Hampton, a un anno dalla scomparsa, arriva invece la primissima riedizione in vinile grazie alla Real Gone, in un accattivante doppio Lp color pesca (un riferimento al celebre disco dei colleghi Allman Brothers?). In quei solchi, una musica ancora tutta da decifrare, tra liquidità chitarristiche alla Jerry Garcia, deragliamenti ritmici da capogiro, stridule retate di tromba e una vocalità nevrastenica che, esasperando i soliloqui di Captain Beefheart, finisce con l’anticipare le psicosi di David Thomas. “A combination between suckrock and ointment“, secondo il sempre rigorosissimo Hampton: qualunque cosa ciò voglia significare, non sapremmo trovare definizione più azzeccata.

Tracklist

Disc 1
1. Halifax
2. Maria
3. Six

Disc 2
1. Evans
2. Lawton
3. Hey Old Lady/Bert’s Song
4. Hendon

[lo trovi anche su Ondarock]

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