Pochi posti mi fanno l’effetto di Trieste, e non solo per le burrascose turbolenze biografico-sentimentali che, per un periodo, mi hanno legato all’austero capoluogo giuliano: un’aristocratica città austro-ungarica scaraventata in riva al mare genera un contrasto così magico da inchiodare anche il più distratto dei turisti, qualora non bastasse la sua aura di varco geografico tra due mondi culturali a decretarne l’indiscutibile fascino. E’ per questo che, quando David Byrne ha svelato le date del suo tour italiano, ho deciso di scartare le prime tre, seppur più prossime alla mia base operativa bolognese, optando senza esitazioni per l’ultima e più scomoda tappa: cos’è, d’altronde, l’arte di questo apolide con due passaporti e la testa (parlante) contesa fra tutti e cinque i continenti, se non una mescolanza di ingredienti contraddittori, una scorribanda fra confini spazio-temporali puntualmente violati e riscritti, un lembo di terra fertile limitato da onde e montagne?
Lungi dall’essere lo stanco compitino di una rockstar alla frutta che una critica incapace di distinguere la luna dal dito ha voluto sommariamente liquidare, l’ultimo American Utopia è invece una riconferma tutto sommato dignitosa delle sopracitate qualità, magari leggerina e priva di guizzi folgoranti, ma più che godibile se si riesce a disancorare il nome dell’autore dal suo ingombrante peso storico (anzi, perdonandogli tutto proprio in ragione della sua passata immensità). E se il titolo del disco tira in ballo un termine consono alla tensione byrneiana verso l’irrealtà, è proprio questo tour, “il più ambizioso dai tempi di Stop Making Sense” nelle intenzioni del protagonista, a prospettarsi decisamente “utopico”, a partire da un palco su cui non sembra esserci nulla: niente amplificazione, niente batteria, niente strumenti, solo una minimale scenografia che ricorda una cornice di ragnatele tessute da aracnidi cyborg.
Non è così immediato sintonizzarsi su un mood “da concerto” dopo una giornata iniziata all’ex-manicomio basagliano, proseguita nella tristemente celebre Risiera di San Sabba e terminata in una piazza dove furono proclamate le infami Leggi Razziali, ma la cosa che più mi turba è l’incertezza meteorologica, con un addensarsi sempre più torvo di nuvolacce grigie che, già da ieri, minacciano di compromettere la serenità della serata. Le premesse sono delle più crudeli: finora il tempo ha bene o male retto, se non per qualche timida spruzzata occasionale, ma a mezz’ora dall’inizio inizia a diluviare come se non ci fosse un domani. Questa snervante situazione woodstockiana viene comicamente commentata dai suoni ambientali diffusi dall’impianto, un mix di rumori naturali che evocano idillii bucolici piuttosto stridenti con la nostra frustrazione, toccando apici grotteschi quando a ruscelli gorgoglianti, foglie fruscianti e cicale frinenti si aggiungono tuoni sintetici quasi sincronizzati con quelli reali che ci tormentano.
In un clima di esasperazione generale crescente, il puntualissimo Maestro si materializza davanti a noi, e accadono almeno due cose incredibili: 1. In quel preciso istante, come per incanto, la pioggia cessa; 2. Tre quarti del pubblico (me compreso) abbandona le seggiole e si accalca sotto al palco, quasi sentisse il bisogno di assecondare quel miracolo con un gesto eclatante e liberatorio.
L’attacco è affidato a Here, lussureggiante chiusura di American Utopia, che si dimostra altrettanto funzionale in veste di incipit: all’inizio c’è solo David, seduto a una scrivania, in mano un cervello di gomma di cui indica con gesti solenni le varie zone, in corrispondenza dei versi della canzone; dalla seconda strofa comincia a vagare per il palco maneggiando il suddetto organo come un attore shakespeariano, mentre due coristi prima lo sostituiscono nella posizione iniziale, poi deambulano insieme a lui come automi. Lo scarto fra la forte suggestione della musica e la freddezza quasi brechtiana di queste scarne movenze, sottolineate da un’illuminazione ridotta all’osso, crea un effetto mozzafiato, dimostrando una volta di più che maiuscolo teatrante sia Byrne.
Nella successiva Lazy (collaborazione datata 2002 con il duo house britannico X-Press 2) trottano sulla ribalta otto degli undici elementi dell’ensemble, tutti equipaggiati con strumenti portatili, microfoni auricolari e radiotrasmettitori, gli amplificatori celati fuori campo, nell’ombra: il risultato di questo trucco genialmente semplice è a metà tra una marching band dalla divisa sgargiante e un coro gospel di androidi kraftwerkiani, aderenti al millimetro con la musica suonata e aizzati da un predicatore troppo irrequieto per sedere in cima a un pulpito. Schiodare la batteria non solo favorisce un ipercinetico dinamismo, ma porta a enfatizzare la componente percussiva delle canzoni, basilare in un approccio fedele all’ipnotica trance di molte musiche extra-occidentali, in cui la stratificazione ritmica prevale sulla ricerca dello stacco accattivante.
D’altro canto, la straniante assenza di qualsiasi oggetto immobile costringe a focalizzarsi sul moto perpetuo dello show, che pare quasi messo sotto teca dentro una wunderkammer in perenne riallestimento.
La formazione si completa con l’ingresso di un’androgina chitarrista e di altri due percussionisti, mentre David imbraccia una Stratocaster e ci salta letteralmente addosso con una travolgente I Zimbra, uno degli anthem più amati della sua storica band, se possibile ancora più vorticosa dell’originale, seguita a ruota da una Slippery People altrettanto tonica. In questi due brani colpisce, oltre all’efficacia delle frenetiche quanto eleganti coreografie, il tentativo di spazializzare il più possibile il contenuto musicale, creando un portentoso organismo audiovisivo con il cuore ritmico al centro e il duetto voce/cori ai lati, a mimare due arti in continuo movimento. Un’astratta teatralità riprende il sopravvento su I Should Watch TV (dal penultimo Love This Giant, in cui condivide i crediti con St. Vincent), che inizia con un soliloquio del cantante davanti allo schermo-portale pittato dalla scenografia luminosa e prosegue con un teso fronteggiarsi fra lui il resto della band, contrapposizione quasi militare sdrammatizzata dai balletti idioti di questo Comandante sui generis, mentre la musica affianca con disinvoltura un massiccio worldbeat à-la Transglobal Underground e un ponte prossimo all’ascesi, intarsiandosi di ghirigori nipponici grazie ai misurati interventi di un koto.
E’ invece l’Africa allucinata di Peter Gabriel a dominare la filastrocca etno-ambient di Dog’s Mind, sprofondata in un’accesa luce vermiglia che ci inquieta come le allusioni politiche del testo, rese esplicite da un mini-comizio in cui veniamo invitati a “votare sempre alle piccole elezioni, perché partendo dalle piccole cose si cambiando anche quelle più grandi”. E’ poi la volta di Everybody’s Coming To My House, irresistibile singolo di lancio dell’ultimo lavoro, perfetto blend di tecnologia e tribalità in una resa maggiormente corale rispetto alla versione in studio, con tanto di finale a cappella declamato da una piramide umana e un gioco di luci che pare riprodurre l’interno di un alveare.
Constatata l’evidente febbre danzante che ha ormai contagiato un po’ tutti, lo scaltro David decide di portarci a bollore con due attesi pezzi da novanta del repertorio Talking Heads: se This Must Be The Place poggia tutta sulle saltellanti coreografie degne di un corpo di ballo con tutti i crismi, Once In A Lifetime fa anche meglio grazie all’arguta fantasia dell’illuminazione, che durante le strofe bracca il leader con un occhio di bue stile rapimento alieno, per poi esplodere in sprazzi accecanti nell’incontrollata effervescenza dei ritornelli. Ci si ricompone un po’ su Doing The Right Thing, forse la più riuscita tra le composizioni recenti, ancora una volta impreziosita da una splendida trovata scenica: per gran parte dell’esecuzione Byrne è in scena con il solo suonatore di grancassa, incorniciato dalle mani degli altri strumentisti che spuntano dai lati, mentre nell’ultima porzione si scatena in una corsa epilettica insieme ai coristi, prima di crollare sfinito su una sedia. In Toe Jam (tandem con Fatboy Slim accompagnato in origine da un irriverente video, che Byrne si scusa di non poter riprodurre dal vivo) i musici si ricompattano schierandosi uno di fianco all’altro, tra una chitarrina in odor di Paul Simon e un selvatico ponte per sole percussioni.
“Un mio amico texano, dopo un concerto a San Antonio, mi ha chiesto se per caso suonassi in playback. La risposta è no: ogni nota che sentite proviene da queste meravigliose persone!”, rivendica non senza orgoglio il padrone di casa mentre presenta la sua variegata banda, per poi tempestarci di veri pugni con una Born Under Punches in cui cori e percussioni sembrano i riflessi di uno stesso organo di senso e il solo della chitarra sfreccia spumoso come la scia di una cometa.
Seguono ben tre istantanee da American Utopia, durante le quali l’estro figurativo del collettivo tocca i suoi vertici: I Dance Like This marca con più violenza possibile lo stacco tra la dolcezza pop della strofa (in cui il pianista si aggira sconsolato con la sua tastierina a tracolla) e l’implacabilità industriale del ritornello (punteggiata di parodistiche luci strobo), infilando pure un intermezzo di silenzio danzante che offre un saggio del titolo; Bullet inizia con un corista-tedoforo che consegna a David una grossa torcia, tramutandolo in un pesce abissale attorno al quale tutti gli altri svolazzano in cerchio come moscerini zombie; Everyday Is A Miracle è null’altro se non un gioioso girotondo a perdifiato, al termine del quale un Byrne in rigor mortis simulato viene sorretto dai divertiti scudieri. Tre piccole (?) lezioni di stile e di gusto, per le quali un regista sulla breccia pagherebbe oro, snocciolate con una naturalezza quasi irritante, la stessa che restaura Like Humans Do con le impalcature di un formidabile ballo di gruppo sudamericano. Altro momento di purissimo godimento una Blind resa irriconoscibile dal trattamento ormonale che ne esaspera il vigore funkeggiante, con un finale disco tutto da ballare e uno sfondo di ombre giganti ottenute con un’azzeccata illuminazione dal basso. Un trenino di ghost notes di chitarra acustica introducono un’altrettanto vulcanica Burning Down The House, in cui non prende fuoco nulla ma come chiusura è ugualmente incendiaria.
Manco a farlo a posta, riproponendo all’inverso il paradosso soprannaturale dell’inizio, appena David e i suoi scompaiono il cielo ricomincia a brontolare… ed è forse per far capire una volta per tutte chi comanda che tornano subito alla carica, invitandoci per l’ennesima volta a Dancing Together, coloratissima nei neon gelatinati quanto nelle slappate del basso. La Natura intanto continua a mostrare i muscoli, ma questo pur maestoso sfoggio di potenza è ben poca cosa al cospetto dell’ennesima fantasmagoria del Nostro, sofisticato stregone che nell’ultimissima The Great Curve, introdotta da una rullata da Giudizio Universale, ripropone alla lettera l’acido solo originale di Adrien Belew, addobbandolo con adorabili mossette alla Prince. Laddove qualsiasi altra mediocre rockstar avrebbe buttato là un riferimento scemo allo spauracchio della pioggia, lui se ne va limitandosi a salutare e ringraziare, consapevole che più di così non potremmo divertirci.
E’ sbalorditivo pensare che uno spettacolo del genere alla fin fine poggi solo su undici persone che suonano, cantano e ballano, supportate da pochi, squisiti effetti speciali artigianali. La quantità di riferimenti artistici disseminati in questa ora e mezza di pura meraviglia è tale da dare le vertigini, ma non oso addentrarmi in un simile compito, in quanto travalicherebbe abbondantemente le mie competenze. Ottimo, dall’inizio alla fine, il suono riportato a casa, impresa non da poco date le dimensioni e la tipologia della situazione. Tuttavia, è inutile puntualizzarlo, l’elemento che lascia più di stucco è proprio Lui, splendido sessantaseienne in un tour de force fisicamente più che impegnativo, e pure sul fronte vocale non sbaglia un colpo nonostante l’acutezza media delle tonalità. D’altronde, cos’altro puoi aspettarti da uno che controlla i temporali?
Setlist
1. Here
2. Lazy
3. I Zimbra
4. Slippery People
5. I Should Watch TV
6. Dog’s Mind
7. Everybody’s Coming To My House
8. This Must Be The Place (Naive Melody)
9. Once In A Lifetime
10. Doing The Right Thing
11. Toe Jam
12. Born Under Punches (The Heat Goes On)
13. I Dance Like This
14. Bullet
15. Every Day Is A Miracle
16. Like Humans Do
17. Blind
18. Burning Down The House
Encore
19. Dancing Together
20. The Great Curve
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