(continua da qui)
“Secondo te ci sarà gente stasera?”, mi chiede Ted con un tono un po’ sconsolato, come se si fosse già rassegnato ad un flop inevitabile. Continua a apparirgli tutto vagamente irreale. Per quale ragione dei ragazzi italiani del 2018 dovrebbero andare a sentire i Distorted Pony, che già nella Los Angeles dei primi 90 erano considerati una band minore, durata troppo poco per lasciare un segno anche solo nella loro città? Lo rassicuro dicendogli che il Freakout è un locale con una sua clientela fissa, che Bologna è una città vivace, che Manuel ha fatto un ottimo lavoro a livello promozionale e che tra gli appassionati la loro musica è pura leggenda: non c’è ragione per dubitare che la serata possa andare bene. Lui non pare troppo convinto, ma si fida. Ci separiamo a Piazza XX Settembre, loro se ne tornano in ostello e io nel mio piccolo monolocale. Sono a pezzi: la nottata precedente è stata violenta come la musica che ascolterò questa sera, e le poche energie a disposizione le ho concentrate tutte per il buon esito dell’intervista. Arrivato a casa faccio appena in tempo ad appoggiarmi sul divano che sprofondo in un sonno abissale. Vengo destato diverse ore dopo dall’arrivo di un ospite a cui, grazie al cielo, avevo lasciato un mazzo di chiavi: sono quasi le nove, avrei rischiato di perdermi la serata senza quell intervento provvidenziale… Telefono a Manuel, che mi tranquillizza: si inizierà tardi, stanno finendo di sistemare, la gente deve ancora arrivare. Mi precipito comunque.
Al Freakout trovo già un discreto assembramento di persone, tra cui alcune vecchie conoscenze confluite da parti diverse d’Italia, tutte accorse lì solo per loro. C’è un’atmosfera molto piacevole, sembrano tutti conoscersi e volersi bene, ed è abbastanza assurdo pensare che questo clima rilassato trovi posto al concerto di una delle band più terrificanti mai partorite dal rock americano. Nel frattempo salgono sul palco i fossanesi Cani Sciorrì, che incendiano la sala con una mezz’ora di tellurico noise all’arma bianca, implacabili come i Cherubs ma sguaiati come i Killdozer, con un tocco demenziale alla Butthole Surfers e un pizzico di grezzura settentrionale che non guasta. Il cambio palco è relativamente rapido data la backline in comune, richiedendo più tempo giusto per microfonare i barili di metallo di Ted. Tra la strana chitarra artigianale di David, la spettacolare Travis Bean di Eddie e il classico basso Rickenbacker di Tricia (su cui campeggia un adesivo piuttosto eloquente: “PAIN”), la strumentazione è di tutto rispetto. Nel frattempo la sala si è riempita fino all’orlo, con qualche testa a traboccare qua e là, fatto che lascia la band abbastanza incredula. Non suonano insieme da anni, e paiono tesi ed emozionati come alla loro prima esibizione. Le luci rosse e il look underground del Freakout creano un’atmosfera quantomai appropriata: sembra davvero di trovarsi in una Los Angeles suburbana e degradata, magari quella di un romanzo cyberpunk di William Gibson. Prima di iniziare, David si avvicina e mi chiede di tradurgli in italiano la frase “this song is antifascist”: non so cosa abbia in mente, ma inizio già a gasarmi.
Il check viene tirato per le lunghe, come se cercassero di rimandare il più possibile il fatidico inizio, manco fossero dei ragazzini al primo giorno di scuola che faticano a separarsi dalla madre. Alla fine non hanno più scuse, devono attaccare, e sarà per sciogliere questo grumo di incertezza che Death In The Turnstiles detona come un embolo sparato via da una pompata di sangue, investendoci con la sua tromba d’aria di detriti industriali. Il suono è così imperioso da far temere che l’impianto possa scoppiare da un momento all’altro, anzi che il locale stesso possa crollarci addosso. Non ci viene concesso troppo tempo per abbandonarci a simili fantasie, né per applaudire a dovere questa prima sassata: nel frattempo è già partita l’autoflagellazione post-punk di Krank, tra i loro brani più rappresentativi, con la chitarra del leader lancinante come una trivella sopra il maremoto percussivo di London e Ted. L’affiatamento tra i cinque è micidiale, la tensione appare già dissolta. E di riprendere fiato non se ne parla nemmeno: subito di fila God’s List, breve e devastante, suonata con la scomposta precisione dei Big Black e la ruvida cupezza degli Unwound. Fa un caldo infernale, e una musica così incandescente non può che alzare la temperatura a livelli insostenibili.
Finalmente una breve sosta: David riaccorda, ci saluta e ringrazia il gruppo spalla. Poi Ted imposta un robotico ritmo di bacchette, London ci sommerge con una valanga di colpi di cassa e parte Smitten, una versione heavy dei This Heat, cantata da Tricia con la bestiale intensità di una Lydia Lunch. Un attimo di attesa per far scemare urla e applausi, David pronuncia la frase che mi aveva chiesto di insegnargli, teneramente storpiata, mentre con un gioco di volume la sua chitarra si ingigantisce sempre più fino a ingoiarci: Dept. Of Existence è il loro brano più angosciosamente politico, scudisciato da Ted con una scarica di cinghiate degna degli Skinny Puppy. Get Bug, la mia preferita in assoluto, è invece il loro numero più drammatico ed emozionale, con il grasso basso di Tricia in primissimo piano e un arpeggio di chitarra à-la Duane Denison di una tristezza sconfinata: avrebbero potuta scriverla i Sonic Youth, invece l’hanno scritta i Distorted Pony. Il pubblico è ormai preda di un delirio fuori controllo, David lo ringrazia quasi con un filo di imbarazzo. “La prossima è tratta dal nostro primo Ep”, ovvero Forensic Interest, un martello pneumatico messo nelle mani di un uomo primitivo, con Eddie a contribuire ai cori.
Al contrario, vibra di una nevrosi tutta contemporanea la freudiana Castration Anxiety, con le sue pause cariche di rancore che danno impeccabilmente corpo al timore ancestrale del titolo, mentre London mancina come un mulino impazzito. Uno sferragliare di corde e bordi di tamburi ci trascina per i capelli dentro Go Kart lasciando una scia di sangue rappreso sul pavimento, Tricia più rauca che mai nel ringhiare quel fatidico “you promised!” che rimane tra le urla più disperate degli anni 90, mentre il doom straziato di Slow Leak (i Pentagram con Page Hamilton alla chitarra) arranca pesante tra un ponte parlato da brividi e una coda di una cattiveria inaudita, che si decompone in un nugolo di feedback. London richiama tutti sull’attenti con un succinto “are you ready?” e Hod carica a testa bassa come un ariete d’acciaio, con una ferocia da far invidia agli Unsane, poi Tricia cede il basso a David e s’immerge anima e corpo in Splinter, con vette di gutturalità che manco Wendy O. Williams. Dopo averci sballottati come sardine in una rete dentro Big Sprawling Corrupt, il sacrificio si compie impalandoci sugli oltre dieci minuti di A Fine View From The Temple, tra i più tragici riti del noise rock tutto, aperto da un interminabile profluvio di distorsioni incrociate, come se Neil Young fosse accompagnato dai Melvins, per poi lanciarsi in un assalto barbarico al triplo della velocità.
“Molti anni fa io ero come voi, a un concerto di questi ragazzi!”, dichiara con orgoglio l’ex-fan Eddie all’apertura dei bis, mentre David ci informa che la prossima canzone “non la suona per un pubblico più o meno dal 1994”, e ci serve la spietata tempesta di chiodi di Cripple, per poi assestare il colpo di grazia con la fresa di Angel On Haug, “il loro primissimo singolo”. Difficile dire se siano più tramortiti loro dal nostro entusiasmo o noi dalla loro potenza. Una cosa è sicura: si può uscire sorridendo anche da un concerto noise.
“Non riesco a capire…a Los Angeles eravamo una band di second’ordine, mentre qui il locale scoppiava di gente, ed erano tutti così euforici! Sono senza parole…”. Sapessi noi, David.
a Valentina
Setlist:
1. Death In The Turnstiles
2. Krank
3. God’s List
4. Smitten
5. Dept. Of Existence
6. Get Bug
7. Forensic Interest
8. Castration Anxiety
9. Go Kart
10. Slow Leak
11. Hod
12. Splinter
13. Big Sprawling Corrupt
14. A Fine View From The Temple
Encore
15. Cripple
16. Angel On A Haug
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