Il connubio tra jazz e militanza, fisiologicamente favorito dalla comune natura anti-dogmatica e anti-autoritaria dei due universi, ci ha regalato alcune tra le pagine più memorabili della musica contemporanea: obbligatorio citare almeno l’invettiva antirazzista declamata da Charles Mingus in Fables Of Faubus, la Freedom Now Suite con cui Max Roach si propose di riscattare le sofferenze dell’intero popolo nero, i proclami in perfetto stile Black Power che accompagnavano Fire Music di Archie Shepp e l’internazionalismo terzomondista della Liberation Music Orchestra ipotizzata da Charlie Haden. Sono operazioni che affascinano per il duplice, avvincente binario che si viene a creare tra una musica fuori dagli schemi e un messaggio politico dal basso che non guarda in faccia a nessuno, grido di rabbia senza confini che mira alla sobillazione totale.
Ci piace inquadrare il nuovo lavoro del veterano Marc Ribot in questa gloriosa tradizione, anche se parlare di jazz nel suo caso suona riduttivo se non inappropriato: sia perché il rinomato eclettismo dell’autore è così vorticoso da spazzare via qualsiasi tentativo di inscatolarlo, sia perché l’aria elettrica che si respira in queste undici tracce rimanda piuttosto ad un rock adulto e consapevole, seppur rabbioso e sciroccato. Ad accompagnare il Maestro troviamo il bassista Shahzad Ismaily e il batterista Ches Smith, ambedue reclutati tra le fila dei Secret Chiefs 3, al loro terzo lavoro insieme sotto la sigla Ceramic Dog (che proprio quest’anno festeggia il primo decennale di attività). Se il nome del gruppo (un possibile aggiornamento, in un materiale ancor più fragile, della famigerata metafora peckinpahiana?) preferisce mantenersi sul vago, i titoli degli album parlano fin troppo chiaro: Party Intellectuals, Your Turn e adesso YRU Still Here?. La secca domanda del Comandante Ribot, da sempre impegnato in innumerevoli cause dentro e fuori la musica, sembra al contempo chiederci se siamo ancora vivi (quesito non scontato, in un’epoca che a tratti ricorda le sequenze più sinistre di Essi Vivono) e, in caso di risposta affermativa, perché siamo ancora con le mani in mano di fronte agli innumerevoli orrori a cui assistiamo ogni giorno; ma c’è anche della sottile autoironia, come se questo incanutito brontolone ci domandasse se siamo davvero ancora qui ad ascoltare lui e le sue stramberie, e fosse il primo a meravigliarsene.
Capopopolo umorale e tutt’altro che ortodosso, il chitarrista newyorchese rifugge qualsiasi retorica e preferisce intavolare le sue risoluzioni strategiche in forma di schizzate caricature zappiane, fagocitando qualsiasi linguaggio stilistico e etnomusicologico in un disinvolto arrembaggio pan-musicale, per destabilizzare tanto le orecchie quanto la testa dell’ascoltatore. La scelta non solo di cantare, ma di usare la propria voce per urlare testi che più sfrontati non si potrebbe, completa il profilo criminale di un compassato terrorista che non si è mai fatto scrupoli a rivendicare orgogliosamente le proprie posizioni, si trattasse del suo inconfondibile approccio strumentale o delle sue non meno spigolose vedute ideologiche.
“I got a right to be unhappy/I got a right to say ‘Fuck You!’/I got a right to ignore everything you say, my feelings are political”, gracchia acido con fare alla Jello Biafra nella scomposta Personal Nancy (il riferimento è, ovviamente, a Nancy Spungen) e non potrebbe presentare i suoi intenti in maniera più inequivocabile, mentre in sottofondo si dipana un non-arrangiamento che incorpora anche drum machine, slide guitar, organo e vocoder. Pensylvania 6 6666 è invece una sarcastica memoria autobiografica di Ismaily, che rievoca la sua poco confortevole adolescenza da musulmano a Danville, ridente cittadina della Pennsylvania dove “everybody is white”, sopra un rilassato passeggiare latineggiante con tanto di flauto e percussioni che, nel convulso finale spronato dalle tromba, si colora di sfumature afrobeat. Agli antipodi “Agnes”, furibondo garage che tira in ballo Stooges, Monks e Fall, sabotato però dagli interventi depistanti di un sintetizzatore gommoso e da un assordante finale noise con Ribot gran maestro di cerimonie effettistiche. La strumentale Oral Sidney With A ‘U’ si gingilla invece con un dinoccolato funk atonale, memore dell’apprendistato No wave del leader, in cui il basso cubista di Ismaily viene insidiato da vischiosi inserti di organo Vox e chitarra wah wah.
La title track poggia per metà struttura sulla straniata atmosfera arabeggiante creata da requinto, percussioni e pad sintetici a cui, nella seconda parte, si aggiungono anche il basso e due acidissime chitarre che rendono ancora più allucinata questa barcollante marcia nel deserto. Il capolavoro del disco è l’incredibile Muslim Jewish Resistence (allusione alle origini miste dei tre, esempio di integrazione che altrove sono refrattari ad adottare), un inno al fulmicotone degno dei Fugazi ma arricchito dalle divagazioni esotiche del violino e dai laceranti grugniti del sax, con un serrato botta e risposta tra voce e cori a colpi di slogan a bruciapelo, senza lesinare nomi e cognomi dei responsabili con le mani insanguinate. Lunga pausa rintronante con Shut That Kid Up, ipnotico post-stoner dominato dalle ispide chitarre del Nostro, poi di nuovo all’assalto con l’esplosivo crossover Fuck La Migra, ennesima avvelenata cartolina dall’America trumpiana che evoca allo stesso tempo Nation Of Ulysses e Rage Against The Machine, con tanto di stacchetti di fiati alla James Brown.
A dispetto del titolo, l’heavy-psych indianeggiante Orthodoxy è un brano decisamente poco allineato, con la chitarra che duetta all’unisono con le spastiche capriole di un sitar, concedendosi di passaggio un bridge dalle deliziose inflessioni sixties. Freak Freak Freak On The Peripherique, in parte cantata in francese, torna ad adottare una sincopata percussività recuperando le incendiarie molotov funk-punk di Pop Group e Minutemen, prima di spegnersi nei filtri di un buffo sintetizzatore da videogioco a 8 bit. Chiude con stile la cinematografica Rawhide, polveroso surf reso robotico dal vocoder, con iniezioni di organo, spuma di flanger e intermezzi dub.
Raffica di schegge musical-dottrinali che funge anche da passerella per una formidabile versatilità strumentale, YRU Still Here? è la godibilissima chiamata alle armi di un imprevedibile sessantenne che è meglio non far arrabbiare.
Tracklist
1. Personal Nancy
2. Pennsylvania 6 6666
3. Agnes
4. Oral Sidney With a “U”
5. YRU Still Here?
6. Muslim Jewish Resistance
7. Shut That Kid Up
8. Fuck La Migra
9. Orthodoxy
10. Freak Freak Freak On The Peripherique
11. Rawhide
[lo trovi anche su Ondarock]
Ribot è considerato un gran chitarrista eclettico, non conoscevo gli aspetti da te descritti.
Ho preso il suo ultimo Songs of resistance.
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Molto bello anche quello!
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