Ecco, sono dentro. Ancora non mi pare vero. Quanto ci ho fantasticato su questa serata, depennando i giorni sul calendario e ammonticchiando scrupolosamente le ultime paghette…E pensare che per poco mi perdevo l’inizio del concerto! Ne è passata di gente fica sul palco del Maxwell’s, così tanta che, pur col cuore spezzato, ho dovuto accettare tante rinunce: ma ai Replacements no, cazzo, non potevo mancare. Per un rifiuto della provincia come me, non si può chiedere di meglio: quattro ragazzi più o meno della mia età, troppo eclettici per essere hardcore ma troppo aggressivi per essere rockers tradizionali, che cantano di problemi che potrebbero essere i miei senza però cedere ai soliti, facili nichilismi adolescenziali, anzi con un piglio quasi proletario che li avvicina allo spirito originario del punk e forse del rock tutto, schietto e teppista, qualcosa che viene dalla strada e alla strada viene restituito. E quanta grinta, quanta rabbia, quanto dolore in quelle bellissime canzoni, ruvide e spavalde ma sempre melodiche, così viscerali da scuoterti da capo a piedi…Mi hanno salvato la vita tante di quelle volte che venirli a sostenere stasera è un dovuto atto di riconoscenza.
Il locale è già strapieno, ma non abbastanza da impedirmi di farmi strada a spallate verso le prime file, strappando ogni passo al pavimento incrostato di birra e sguazzando in un pantano di sudore non mio.
Sono già tutti sul palco, e la Firebird di Bob sta iniziando a ronzare. Paul non appare in formissima, ha l’aria stordita, barcolla leggermente, pare che la chitarra gli pesi più del dovuto, sembra di sentirlo fino a qui l’etanolo che esala dal suo corpo maltrattato…Ce la farà a portare a termine il concerto? Rimarrò deluso? Inizia a salirmi una strana ansia da altrui prestazione, ma credo faccia parte del gioco…
Poi un lampo improvviso gli rianima gli occhi, la band gli si compatta intorno come dopo un segnale militare e parte una Hayday che più scalmanata non si potrebbe, un rock’n’roll alla velocità della luce, ispido e sgraziato come un inverno in Minnesota. I miei timori sono polverizzati: sto per assistere ad un’esibizione che, se forse non passerà alla storia, di sicuro cambierà la vita mia e di tutti i presenti.
Neanche due minuti e il primo pezzo è già esaurito, veloce e spericolato come un’adolescenza allo sbando, e suonato con una tale foga che quando parte Color Me Impressed le chitarre sono già irrimediabilmente scordate: il che, manco a dirlo, è un valore aggiunto. L’atmosfera è elettrica, i quattro sono gasati e gasano, tutto pare innervato da un’urgenza insopprimibile.
Dose Of Thunder si abbevera di quella carica e suona maschia & possente come rare volte il punk riesce ad essere, poi Paul biascica chissà cosa al microfono e la band si lancia in un’inattesa rilettura di Fox On The Run degli Sweet, ma qualcosa va storto: gli strumenti uno dopo l’altro abbandonano la nave e il brano si sfalda dopo appena un minuto. Cosa sia successo non è chiaro, forse era uno scherzo progettato sin dall’inizio, tant’è che sia loro che il pubblico la prendono a ridere; ed è in questo clima di gioiosa comunione emotiva si dipana una Hold My Life cantata con l’intensità di chi ti sta davvero implorando di “stringere la sua vita”, il grido di un naufrago sul punto di annegare.
Un secondo di pausa per tentare un’accordatura approssimativa, poi una sfilza di classici da togliere il fiato: I Will Dare cianotica nel suo sfacciato bisogno di amore, Favorite Thing che pare inciampare su se stessa per quanta fretta ha di precipitarsi addosso a noi, e finalmente l’anthemica Unsatisfied che bramavo segretamente, un urlo liberatorio che amplifica anziché sfogare la frustrazione, con tutti a sgolarsi come invasati sul verso che descrive meglio di un trattato sociologico in cosa consista quella straziante, inappagabile fame di vita che chiamiamo adolescenza (“I’m so, I’m so unsatisfied!”).
Can’t Hardly Wait è appena un po’ più meditata e serve a sfreddare il motore prima che esploda, non fosse che arrivano subito Tommy Gets His Tonsils Out e Takin’a Ride a mettere tutto a soqquadro daccapo. Il pogo è ormai selvatico, credo di avere metà corpo tumefatto. Paul ci guarda con la soddisfatta complicità di un capopopolo riconoscente alla sua fedele brigata, accenna il sorriso più sincero che si possa pretendere da uno sbronzo lercio e ci regala una di quelle emozioni che si portano nella tomba: Bastards Of Young è la nostra My Generation, un inno all’arma bianca per un plotone di disadattati che proprio non sa dove andare a sbattere la testa, e nel dilaniarci le corde vocali insieme a lui sembriamo per un attimo tutti figli suoi.
Kiss Me On The Bus è una scheggia di romanticismo da marciapiede, cartolina agrodolce seguita da un siparietto delirante in cui un Paul sempre più straperso cazzeggia a ruota libera con il pubblico, per poi ringhiare un improbabile “MURDER!” e omaggiare gli amati Kiss con una Black Diamond che diventa in tutto e per tutto una canzone di suo pugno.
Tutt’altra aria tira nella successiva Johnny’s Gonna Die, con le sue pigre atmosfere desertiche in cui Bob e Paul inscenano un abrasivo duello chitarristico, mentre Otto affianca sfuriate supersoniche a divagazioni blueseggianti e I’m In Trouble potrebbe essere un inedito dei Ramones ma termina in perfetto stile sixties: nel complesso, un trittico esemplificativo delle varie anime del quartetto.
Left Of The Dial, invece, è una di quelle canzoni westerberghiane fino al midollo, una firma talmente inconfondibile che la band decide deliberatamente di buttarla in cagnara lasciandone il finale in sospeso, quasi a non volersi prendere troppo sul serio.
Ancora un’unghiata di squisito melodismo punk su God Damn Job e poi una Answering Machine in balia di due chitarre ormai lontane anni luce da qualsiasi principio armonico occidentale, ma che prosegue comunque fino alla fine, risoluta e sfrontata, perché quando le emozioni sono così impetuose bastano a se stesse e possono permettersi di prevaricare la tecnica. Senza esagerare, però: e così, dopo il boogie scanzonato di Waitress In The Sky, Paul si decide ad ammettere che “Yeah, we’ve got to retune for the next one…”, ovvero l’assalto psicotico Take Me Down To The Hospital.
E solo i Replacements potrebbero affilare con tanta nonchalance l’incedere incendiario di Gary’s Got A Boner e il country rock di If Only You Were Lonely, snocciolata in un clima così rilassato che Paul si concede il lusso di impappinarsi e ricominciarla da capo senza che il pezzo subisca interruzioni.
Il sapore rétro è ormai predominante, e allora perché non mettere in fila un pugno di cover d’annata? Baby Strange, Hitchin’a Ride e una sguaiatissima Nowhere Man dimostrano, ancora una volta, come nelle vene dei Replacements scorra classic rock in misura equivalente al punk; tesi, questa, ulteriormente confermata dalla successiva Go, dominata dal chitarrismo a serramanico di Bob Stinson, il Jimmy Page dell’hardcore.
Tuttavia, sono punk senza fronzoli quelli che scalpitano in platea, ed è bene accontentarli: congedarsi con Fuck School non può che essere una mossa vincente. Stremati, ringraziano e spariscono, forse già crollati nei camerini, oppure di nuovo in strada per coronare la sbornia.
Defluiamo dalla sala come una mandria inebetita, ma all’uscita l’escursione termica di un febbraio del New Jersey mi riporta alla realtà come una secchiata d’acqua ghiacciata. Cosa è successo poco fa? Dove sono stato? Una cosa è sicura: per dirla con le parole del concittadino Bob Mould, “oggi ho imparato qualcosa”.
Tracklist/Setlist
Disc 1
1. Hayday
2. Color Me Impressed
3. Dose of Thunder
4. Fox on the Run
5. Hold My Life
6. I Will Dare
7. Favorite Thing
8. Unsatisfied
9. Can’t Hardly Wait
10. Tommy Gets His Tonsils Out
11. Takin’ a Ride
12. Bastards of Young
13. Kiss Me on the Bus
14. Black Diamond
Disc 2
1. Johnny’s Gonna Die
2. Otto
3. I’m in Trouble
4. Left of the Dial
5. God Damn Job
6. Answering Machine
7. Waitress in the Sky
8. Take Me Down to the Hospital
9. Gary’s Got a Boner
10. If Only You Were Lonely
11. Baby Strange
12. Hitchin’ a Ride
13. Nowhere Man
14. Go
15. Fuck School
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