Ogni disco dei Beach House è, a suo modo, un piccolo evento. Il duo di Baltimora si è imposto come una delle realtà di punta dell’indie rock d’autore, compiendo nell’asfittica costellazione dream pop un’impresa simile a quella operata dai Low nel sottobosco slowcore: tramutare il rock d’atmosfera in una nuova, solenne musica sacra. Il merito va a una formula che abbraccia i codici del genere mutandoli sistematicamente di segno: tastierine d’annata al posto dei pomposi sintetizzatori scampanellanti, una chitarra ridotta all’osso a fare le veci delle tempeste di flanger dei bolsi shoegazers, un’inconfondibile vocalità androgina a rimpiazzare le anonime sirene che hanno inflazionato il genere, testi di grande effetto a dare il non secondario tocco finale.
Al contempo epica e intimista, oscura e trasparente, profonda e leggerissima, la musica dei Beach House ha costituito uno dei pochi approdi felici della retromania post-2000, anche grazie alla spiritata presenza scenica del personaggio femminile più carismatico dai tempi di Hope Sandoval: Victoria Legrand.
La sorprendente riconoscibilità del loro stile, immortalata nell’indimenticabile Bloom, deve però adesso fare i conti con i limiti insiti nei suoi pregi: i Beach House hanno elaborato una ricetta così solida che rischiano di appiattirsi nel cliché di loro stessi, intrappolati in una strategia tanto vincente quanto ripetitiva.
Cosa c’è di meglio allora, per fare il punto della situazione e intanto riorganizzare le forze, di un’antologia di singoli, rarità e versioni alternative, con due inediti che non guastano? Una raccolta bella ricca, nata dalla necessità di rendere disponibili per i fan tutti quei brani disseminati lungo la carriera al di fuori dei dischi ufficiali.
L’attenzione vola subito alle due nuove canzoni, risalenti alle session di Depression Cherry/Thank Your Lucky Stars: Chariot, la traccia d’apertura giustamente estratta come singolo, entra di diritto nel loro miglior canzoniere, piccolo manifesto di quell’eterea marzialità che ha fatto innamorare molti, capace di coniugare potenza e dolcezza con rara abilità; Baseball Diamond, di contro, risulta un po’ opaca: se fosse rimasta nei cassetti non l’avremmo rimpianta.
Tra gli altri brani sono da segnalare almeno due perle apparse in due differenti antologie: Play The Game, cover dei Queen dall’album-tributo Dark Was The Night, e Saturn Song, probabilmente la cosa più perfetta che i due abbiano mai scritto, dal suggestivo The Space Project.
Chiude impeccabilmente Wherever You Go, l’incantevole ghost track di Bloom in origine agganciata alla coda di Irene, capolavoro nel capolavoro.
Senz’altro più una chicca per aficionados che un album da isola deserta, B-Sides And Rarities ha comunque un suo ruolo strategico nella discografia dei Beach House, ponendosi come salutare pit stop per mettere ordine nel passato e fare chiarezza sul prossimo piano di battaglia.
Tracklist
1. Chariot
2. Baby
3. Equal Mind
4. Used to Be (2008 Single Version)
5. White Moon (iTunes Session Remix)
6. Baseball Diamond
7. Norway (iTunes Session Remix)
8. Play the Game (Queen Cover)
9. The Arrangement
10. Saturn Song
11. Rain in Numbers
12. I Do Not Care For The Winter Sun
13. 10 Mile Stereo (Cough Syrup Remix)
14. Wherever You Go
[lo trovi anche su Magazzini Inesistenti]
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