Se c’è un disco paradigmatico dell’età del ferro (non solo musicale) che stiamo attraversando, questo è l’ultimo dei Phoenix. Strombazzato oltremisura nel nostro paese per gli ossequiosi riferimenti a certa estetica italica usa-e-getta (dalla paccottiglia cartolinesco-felliniana al patinato costume televisivo dei ruggenti ’80, passando per l’inevitabile tributo alle glorie Italo disco), questa fantasmagorica celebrazione dell’effimero a base di sintetizzatori assordanti e batterie ultra-compresse, in cui la forma (un chill-glitter algido e quadrato) prevarica la sostanza con spietata gioia, è uno zibaldone retromaniaco in linea con il verbo del new thinking arena-indie: nutrirsi di cultura di consumo appena appena ingiallita (sempre quella la parola d’ordine: VINTAGE) rimasticandola con l’ironia del collagista, occhieggiando a tante cose senza focalizzarne nessuna e, avendo una gamba nella ricerca e una nel disimpegno, risultando rassicurante più o meno per tutti, con una percentuale di rischio prossima allo zero.
E’ la stessa band, d’altronde, a chiarire i propri intenti in un apposito comunicato stampa, in cui il disco viene presentato come “un tributo alle nostre radici europee e latine, una versione fantasticata dell’Italia”, e le canzoni come “basate su semplici, pure emozioni: amore, desiderio, libidine e innocenza”: non è forse questo anelito di spensieratezza costruita a tavolino (da contrapporre, presumibilmente, alla reale ansia per la complessità dei tempi che abitiamo) IL tratto comune del nuovo “hipster-rock”, che clona la canzonetta ingenua di ieri trapiantandola nella filologia colta di oggi, prendendosi sul serio nel non prendere nulla sul serio?
E’ un disco quintessenzialmente pop nella sua ricercata mediocrità (accezione neutra del termine), rispettando alla lettera i tre canoni fondamentali del genere: 1. tutte le canzoni si somigliano, ma più o meno tutte si lasciano canticchiare 2. ogni brano ricorda qualcosa di già sentito, ma sfugge sempre il riferimento esatto 3. non c’è nessuna canzone memorabile, ma nemmeno nessuna brutta. E’ l’operazione di laboratorio di alcuni consumati intellettuali, sofisticati enciclopedisti sempre meno alternative rocker e sempre più synth-popstar, che mettono da parte le sfiziosità frenchy per concedersi il loro disco più leggero e “mainstream”, con una produzione per nulla intenzionata ad andare per il sottile: schiacciata, sovraccarica, roboante.
Dalla title track a Telefono passando per Fior Di Latte e Via Veneto, a dispiegarsi è una lunga citazione, svuotata di senso come tutto ciò che viene strappato dal suo contesto, a tratti così accurata da spaventare. La differenza (che è anche il vero motivo per cui, in ultima analisi, vale la pena ascoltare questa raccolta) la fa l’esperienza della band e soprattutto del frontman Thomas Mars, a suo modo carismatico anche quando cinguetta un verso da strapazzo come “I’ll be standing by the jukebox/champagne or prosecco?”, lontano anni luce dalla volgarità dei tanti mestieranti che, presumibilmente, si affretteranno ad imitare questa loro mirabolante imitazione a getto continuo.
Ti Amo è un capolavoro di modernariato accelerato, un disco da manuale di sociologia dei processi culturali, un’opera che potremmo ricordare per sempre come dimenticare domani.
Tracklist
1. J-Boy
2. Ti Amo
3. Tuttifrutti
4. Fior Di Latte
5. Lovelife
6. Goodbye Soleil
7. Fleur De Lys
8. Role Model
9. Via Veneto
10. Telefono
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