La parabola di Wayne Coyne è la negazione più esemplare dell’abusato adagio “si nasce piromani e si muore pompieri”: dopo l’acidissima psichedelia degli esordi, il gommoso alternative rock dei 90 e il pop barocco del successo internazionale, tutto era lecito attendersi fuorché un flashback lisergico tanto virulento. La cosa incredibile, che poi è la linea di demarcazione tra i mestieranti e i fuoriclasse, è l’assoluta coerenza rispecchiata dal pur inconsueto percorso: che si trattasse di raccogliere la torcia dei Red Crayola o di Brian Wilson, la band di Oklahoma City si è sempre limitata a essere sé stessa, e quando la materia prima è buona difficilmente il prodotto finale non sarà soddisfacente. Il trait d’union è una bizzarria freak lontana anni luce dalla prevedibilità di tanti colleghi, ma capace anche di toccare corde profonde: oltre i concerti ormai proverbiali, le mostruose sfide alla convenzionalità discografica, i pazzoidi omaggi ai loro idoli e le collaborazioni via via più improbabili, i Flaming Lips saranno ricordati soprattutto per la commovente intensità delle loro composizioni migliori.
Questo opus # 14 prosegue il discorso consolidato quattro anni fa dall’ottimo The Terror: un rock sì acidognolo e dilatato, ma in maniera assai più cupa rispetto alle allucinazioni spaziali cui ci avevano abituato, e con un massiccio ricorso ad un’elettronica viscidamente vintage. Proprio quest’ultima è l’indiscussa protagonista di Oczy Mlody, dominato da sintetizzatori e drum machine come mai prima d’ora, ma che rispetto al predecessore si segnala per un più sostanzioso recupero della melodia, elemento che i nostri eroi non hanno mai abbandonato nelle tante fasi della loro evoluzione. Non aspettatevi tuttavia squarci di grande respiro alla The Soft Bulletin: anche nei momenti più pop, l’aria è così intossicata dai trattamenti sintetici da generare una diffusa sensazione di irrealtà, come se i brani fossero osservati attraverso un filtro deformante.
Nello sconsolato strumentale della title track sembra di ascoltare i Portishead sotto benzodiazepine scadute, programmatica introduzione per le atmosfere malaticce a cui presto diventeremo assuefatti. Dobbiamo attendere la successiva How?? per l’ingresso di una voce che, quando non è grottescamente sformata dal pitching, suona comunque stritolata dall’angoscia, un senso di afasica impotenza esemplificato dal verso “I tried to tell you but I don’t know how” e da una ritmica disarticolata che solo nello slancio abortito del ponte pare rianimarsi. Ancora più vischiosa There Should Be Unicorns, una colata di fango tra voci vocoderizzate e sintetizzatori di gomma fusa, quasi immota nel suo lutulento sgocciolare che nel finale si fa sottofondo di una demenziale profezia spoken word.
Dopo l’opprimente trittico finora dipanato, la dolcissima Sunrise (Eyes Of The Young), forte di una melodia di sicura presa e di un testo insolitamente ottimista, arriva come una boccata d’aria fresca, e anche nei passaggi più drogati (vedi l’astratto bridge alla Robert Wyatt) suona più celestiale che sopraffatta. Quando accennavo alla forza di suggestione del gruppo mi riferivo proprio a brani come questo: liquidi e surreali, eppure delicati e toccanti. Una curiosità: l’impronunciabile titolo dell’album è una traduzione in polacco maccheronico proprio di “eyes of the young”, anche se c’è ben poco di giovanile in questa carcassa già verminosa.
Ma è solo un passeggero spiraglio di luce: il pulsare orientaleggiante di Nidgy Nei (Never No) pare provenire da un’altra dimensione, aliena e distante anche quando a metà del minutaggio si tramuta in un depotenziato battito industrial. Non è da meno il bitcrusher di Galaxy I Sink, un canto mongolo in salsa glitch che dopo i primi minuti si tramuta senza preavviso in una ballatona morriconiana, con tanto di chitarra tremolante e archi enfatici, salvo poi riatterrare nel rassegnato malessere iniziale.
One Night While Hunting For Faeries And Witches And Wizards To Kill è un concentrato di suoni bislacchi incastonati su un implacabile schioccare electronico che sembra accennare un crescendo (cosa ben rara in un disco che mira più che altro a rintronarci), prima che la sua coda scampanellante confluisca dentro lo sciroppo coagulato di Do Glowy, tra l’autotune parodistico della voce e i riverberi esagerati delle percussioni.
Listening To The Frogs With Demon Eyes è il brano più lungo e composito, un’alternanza di stati alterati con un’insolita presenza della chitarra, grande assente in un lavoro dove spadroneggiano le tastiere.
Al contrario, The Castle è il momento più leggero, classica ballata coyneiana non a caso scelta come singolo di lancio, con quel pianoforte echeggiato che rimane tra i loro marchi di fabbrica; tutto ciò che non troveremo mai in Almost Home (Blisko Domu), colonna sonora di un videogioco per esistenzialisti impasticcati.
La conclusiva We A Famly (unico cameo dell’onnipresente Miley Cyrus, ormai l’equivalente di ciò che fu Kylie Minogue per Nick Cave), pur diafana e umorale come il resto della scaletta, è quanto di più emozionante possano proporci i Flaming Lips in questa fase inquieta della loro carriera, chiusura tutto sommato positiva di un album costantemente sull’orlo del crollo nervoso.
Nuova tappa dell’inseguimento ormai ultratrentennale di un’utopica psichedelica totale, Oczy Mlody non evidenzia significativi scatti in avanti ma rinsalda egregiamente la posizione. E per una band a cui pare mancare l’ossigeno quando non si lancia in nuove provocazioni, riposarsi finisce col diventare un atto rivoluzionario.
Tracklist
1. Oczy Mlody
2. How??
3. There Should Be Unicorns
4. Sunrise (Eyes of the Young)
5. Nigdy Nie (Never No)
6. Galaxy I Sink
7. One Night While Hunting for Faeries and Witches and Wizards to Kill
8. Do Glowy
9. Listening to the Frogs With Demon Eyes
10. The Castle
11. Almost Home (Blisko Domu)
12. We a Famly