Non pago di essermi appena gratificato i timpani con i King Crimson, a Roma giusto la sera prima, rieccomi subito in pista per un’altra avventura concertistica. A Milano stavolta, e di nuovo assieme a mio padre: ci tenevo a capire che tipo di impatto potesse avere su un sessantenne un gruppo assolutamente contemporaneo eppure assolutamente classico come i Wilco, e lui si è fatto trascinare volentieri.
Non che possano sussistere dubbi sull’universalità lessicale dei Chicago Six, memori tanto della tradizione folkeggiante a Stelle&Strisce (sulle orme degli Uncle Tupelo, la band precedente di Jeff Tweedy, indimenticati profeti dell’alt-country) quanto della babilonia ’60/’70, il tutto riletto con le sonorità sporche dell’alternative rock, una sfrenata fantasia arrangiativa e un approccio sperimentale che trova sul palco la sua dimensione ideale, sull’esempio dei maestri Grateful Dead. La cifra per comprendere il loro universo lirico-musicale è l’Epica: qualsiasi cosa esca dai loro amplificatori ha la potenza stratificata di una grande narrazione o il respiro dilatato di un paesaggio senza orizzonte, anche quando sussurra una confessione o si imbruttisce di proposito con il veleno atonale e l’elettronica lo-fi, in barba a qualsiasi lagna postmoderna. In questo senso i Wilco sono non solo gli ultimi grandi classic rockers, ma una nuova pagina del Grande Romanzo Americano, un’arte è più prossima a Steinbeck e Faulkner che all’alternative nation post-Lollapalooza. Ma sarebbe ingeneroso circoscrivere il loro perimetro ai soli scenari statunitensi: Tweedy & soci potrebbero far ballare abbracciati un eschimese e un masai, un’impresa che ha del miracoloso data la complessità del mondo in cui viviamo e che con ogni probabilità non ha eguali nel panorama internazionale. Il loro è un costante inno a un rock totale, enciclopedico ma non citazionista, che non deve rendere conto a nessuno ma vuole accontentare tutti, capace di coniugare con la stessa energia Hank Williams e i Neu. Nonostante i mille cambi di formazione e gli innumerevoli voltafaccia stilistici, la proposta dei Wilco rimane una scialuppa di salvataggio inaffondabile per tutti gli appassionati di Grande Musica.
Li avevo già ascoltati a Ferrara l’estate scorsa (in quell’occasione aperti da un gradevole ma forse troppo monocorde Kurt Vile), e la mia reazione immediata dopo l’esibizione è stata procacciarmi il biglietto per il prossimo appuntamento a portata di mano. Non sono il tipo che si fissa con una band e inizia a pedinarla in ogni suo spostamento, ma quel concerto mi ha lasciato così sconvolto da volerne ancora, e al più presto.
Il Fabrique è strapieno, il pubblico impaziente, l’atmosfera elettrica, e con una puntualità tutta midwestern eccoli materializzarsi alle nove in punto sul palco.
Tweedy è al solito un adorabile antidivo, con la sua mise da cowboy fuori tempo massimo e i chili di troppo in alcun modo mascherati.
Attaccano senza troppe cerimonie, e l’apertura è davvero da pelle d’oca: Ashes Of American Flags, polverosa ballata tratta dall’ultra-cult Yankee Hotel Foxtrot (nonché titolo dell’omonimo, indimenticabile documentario sulla vita on the road della band) è solenne come un western di Peckinpah, e alla luce di quanto accaduto pochi giorni prima negli States si colora di un significato ulteriore, profondo, sinistro. La voce sull’orlo del pianto, un basso caldo e avvolgente, la chitarra acustica a scandire malinconicamente gli accordi con l’impeccabile contrappunto della Jazzmaster di Nels Cline, che nell’impressionante crescendo finale si concede un assolo sofferto come una marcia funebre, quasi un requiem per tutti i diseredati d’America, il resto della band ad accompagnare con coinvolta discrezione. Per quanto mi riguarda potrebbe anche concludersi qua, credo di avere le lacrime agli occhi, e la commozione di tutta la platea è palpabile: è anche solo per banali colpi di teatro simili che i Wilco sono la più grande live band del pianeta.
A ribadire il concetto arriva l’acquerello impressionista di Normal American Kids, tratta dall’ultimo Schmilco, splendido esercizio di folk-pop intarsiato di bizzarrie noisy. Suonano solo Tweedy & Cline, una parentesi raccolta che dà voce allo spaesamento del testo. Chi, dopo due brani palesemente ammiccanti, si aspetta un comizio in piena regola è presto accontentato: un Tweedy insolitamente loquace interromperà per ben due volte il concerto con un sermone asciutto e appassionato, degno di un Pete Seeger d’altri tempi: “Ce la caveremo. Saremo sempre più di loro, ci sarà sempre più Bellezza nel mondo, e stasera considerateci come ambasciatori della Bellezza” “Elaboreremo questo lutto. Ora più che mai è importante essere attivi”. “In questo momento tutti in America si guardano e si chiedono ‘cosa posso fare?’ E’ una buona cosa”. “E’ stato un errore catastrofico, ma tutti adesso si stanno chiedendo come impegnarsi per proteggere la parte più debole della società”. Cos’altro aggiungere?
Si prosegue con altri due brani freschi di pubblicazione, If I Ever Was a Child (il singolo di punta) e Cry All Day (il mio preferito della raccolta), impreziosite da un ammirevole gioco di armonie vocali, per poi sfoderare l’artiglieria pesante: I Am Trying To Break Your Heart rimane uno degli anthem metafisici dei sei, un perfetto concentrato di tutte le loro virtù, in bilico tra la linearità della rock ballad e le sottili tentazioni avantgarde dell’arrangiamento (influenzato dal produttore/complice Jim O’Rourke, fantasma sempre aleggiante sulla loro musica), oltre che un piedistallo per il talento di Glenn Kotche, tra i migliori drummers sulla piazza. YHF è stato l’ultimo classico tradizionalmente inteso del rock contemporaneo, ne sono sempre più persuaso. Tanto per insistere sull’incudine anticonvenzionale arriva Art Of Almost, fantasia astratta e destrutturata con un tripudio di crepitazioni elettroniche e una coda da vertigini, che accelera a mille giri al minuto come una droga potentissima che sale senza curarsi delle conseguenze.
Una botta di satura energia garage con Pickled Ginger (dal penultimo Star Wars, gustoso psycho-pastiche regalato in free download) e poi si torna sui terreni più squisitamente wilcoiani di Misunderstood, che a metà ’90 fu uno dei loro primi brani importanti, con tanto di intermezzo rumorista e finale da stadio.
Someone To Lose, altra puntata sul più leggero repertorio recente, lascia subito il posto ad un immancabile appuntamento per i fan del gruppo: Via Chicago è il tipico brano che solo loro avrebbero potuto scrivere, schizofrenica coesistenza tra il passo lento del lamento country e la detonazione apocalittica dell’improvvisazione free, un testo che pare uscito dalla penna di un autore noir e una ragnatela di dinamiche interne che scuote mente & corpo.
Reservations, è una perla inattesa, una stasi lirica cantata con il cuore in mano su un pregevole arrangiamento country-gospel, con un organo quasi liturgico e senza batteria. Poi l’aria inizia ad avere un altro sapore, si respira una tensione a fior di pelle e si fa carne il momento più vagheggiato: Impossible Germany è il manifesto assoluto dei Wilco, uno dei brani più sottilmente psicologici della storia del rock, un deliberato giocare con i nervi dell’ascoltatore rimanendo costantemente sul filo del rasoio. E’ spasmodica l’attesa, e dopo due strofe eccolo, l’assolo più iconico degli ultimi vent’anni, tra gli ultimi grandi artefatti chitarristici di questo secolo: Nels grana le due note iniziali come se affilasse delle lame, cita la prima porzione a memoria col trasporto di chi si stupisce ad ogni risveglio e poi si lascia andare ad una lunga e insolita improvvisazione, quasi tutta giocata sul registro basso con occasionali sortite jazzistiche, senza la visceralità blueseggiante sfoggiata in altre occasioni, un esercizio pittorico difficile e intensissimo; gli altri lo sostengono come dei leali commilitoni, accompagnandolo passo passo nella fluida evoluzione armonica quasi prog, fino a scaricare tutte le scorie nell’esplosione finale, necessaria catartica infinita. Nel complesso durerà più di otto minuti, una delle versioni più pazzesche che mi sia capitato di ascoltare, vetta mozzafiato della serata. Il pubblico è in delirio, almeno quattro applausi di differente intensità si sono sovrapposti al brano. Esiste forse un’altra band al mondo che, nel 2016, riesce ad incantare una platea di giovani smaliziati con un assolo, rudere da archeologia rock per eccellenza, senza risultare neppure per un secondo passatista, retorica o autocompiaciuta?
Jesus, Etc è ideale per rimettere in circolo la serotonina dissipata dal brano precedente, tutti in coro a scandire versi semplici eppure criptici, un saggio critico sull’inafferrabile poetica tweedyana, tutta dentro e tutta fuori il proprio tempo. Altri due brani da Schmilco, peraltro riuscitissimi (Locator e We Aren’t The World) e poi un ironico tuffo nel passato con Box Full Of Letters, dal loro primo album, ricca di umori jingle jangle e vivificata da un’inattesa tonicità. Il ritmo rimane sostenuto con Heavy Metal Drummer, con Kotche bestiale nel sostenere il ruolo del titolo, una galoppata nostalgica tutta da ballare.
Tweedy inizia a lisciare il pelo della sua mitica SG con lente note imbottite di fuzz, e il brano risultante non può che essere I’m The Man Who Loves You, sghembo rock’n’roll che ricorda tutto ma non somiglia a niente. A riaddolcire gli animi ci pensa la beatlesiana Hummingbird, luminoso gioiello dal monumentale A Ghost Is Born, col suo pianoforte tintinnante da operetta vaudeville e Jeff ispiratissimo a menar le danze senza la chitarra a tracolla.
The Late Greats, sentito omaggio a tutti i dimenticati senza riscatto, chiude trionfalmente un set al cardiopalmo.
Si torna presto alla carica con i bis: la band è un unico organismo nel forgiare il riff martellante di Random Name Generator, pare siano incollati insieme, non c’è mezza battuta fuori griglia. La tabula rasa definitiva arriva però con Spiders (Kidsmoke), un’ipnotica, ossessiva cavalcata kraut di oltre dieci minuti guidata dai ronzii epilettici della chitarra di Tweedy e spezzata dalle impennate muscolari dei colleghi, con l’inarrivabile fantasista Kotche a trasformare ogni stacco in un brano a sé.
Altra breve pausa e poi il commiato con un breve set acustico, Cline alla slide guitar e l’instancabile polistrumentista Pat Sansone al banjo: California Stars (tratta da Mermaid Avenue, il celebre album-tributo a Woody Guthrie in collaborazione con Billy Bragg) è dolce e rilassata come una favola della buonanotte. Poi War On War, riflessione fatalista, delicatissima nella sua tensione. La chiusura è emozionante quasi quanto l’incipit: A Shot In The Arm è un inno che ha senso solo se urlato a squarciagola, e il pubblico non se lo fa ripetere due volte, un coro compatto tra sconosciuti che per una sera sono tutti fratelli, così coordinato da sembrare concordato.
Felici, ci facciamo strada tra la calca fuori dal locale. Mi accorgo di non avere voce e di essere uno straccio di sudore, con la pungente aria meneghina a solleticarmi i capelli zuppi. Mio padre pare deliziato quanto me: missione compiuta.
Nel complesso è stata una performance più concisa e meno ruvida rispetto a quella estense, più coesa, forse meno trascinante ma di sicuro più struggente. Certo, mi sarebbe piaciuto cantare tantissime canzoni mancate all’appello (ancora una volta nessun ripescaggio dall’ottimo Wilco (The Album), e anche il mio favorito Sky Blue Sky semi-ignorato), ma d’altronde nei concerti le assenze contano sempre più delle presenze, e riassumere oltre vent’anni di esaltante carriera in poco più di due ore non è compito facile. Non mi sarebbe dispiaciuto nemmeno un omaggio all’appena scomparso Leonard Cohen, ma in fondo meglio così: sarebbe suonato furbetto, e i Wilco ruffiani non lo sono mai stati.
Mi guardo intorno e vedo solo facce soddisfatte, distese, sorridenti: ognuno dei presenti avrà senz’altro avuto i suoi grilli per la testa e i suoi problemi domestici più o meno irrisolvibili, ma per due ore si sono presi una vacanza dalla propria vita e adesso conta solo questo, rigustarsi le belle sensazioni assaporate prima di mettersi a letto, al resto semmai si pensa il giorno dopo: se non è questo il potere vivificante del rock’n’roll…
Prima di andare via capto un coetaneo di mio padre che esclama sguaiato: “Sono stato anni in apnea per non sopportare cose come la disco music e il rap, finalmente un gruppo che rispolvera l’energia del rock come era una volta!”. Non concordo necessariamente con le premesse, ma il messaggio mi sembra chiaro. I Wilco sono forse l’unico gruppo sulla crosta terrestre capace di mettere d’accordo le età anagrafiche e le provenienze geografiche più disparate, semplicemente facendo ciò che gli riesce meglio: della grandissima musica senza frontiere.
Setlist
1. Ashes Of American Flags
2. Normal American Kids
3. If I Ever Was a Child
4. Cry All Day
5. I Am Trying To Break Your Heart
6. Art Of Almost
7. Pickled Ginger
8. Misunderstood
9. Someone To Lose
10. Via Chicago
11. Reservations
12. Impossible Germany
13. Jesus, Etc.
14. Locator
15. We Aren’t The World (Safety Girl)
16. Box Full Of Letters
17. Heavy Metal Drummer
18. I’m The Man Who Loves You
19. Hummingbird
20. The Late Greats
Encore 1
21. Random Name Generator
22. Spiders (Kidsmoke)
Encore 2
23. California Stars
24 War On War
25. Shot In The Arm
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