[Creazioni] Resilience Blues

Front

Gli Xayra sono stati un quartetto Large Important Rock che suonava “musica adolescenziale per adulti”, nato a Roma nel 2014 e formato da Gian Mario Bachetti, Italo Ragno, Costantino Ragno e me. Resilience Blues è un concept album autobiografico registrato quasi interamente in presa diretta presso Gli Artigiani Studio di Roma, prodotto da Fabio Grande con l’assistenza tecnica di Pietro Paroletti e masterizzato da Carl Saff a Chicago (città in cui ho scattato le due foto che compaiono sul fronte e sul retro, poi elaborate nell’artwork curato da Marco Claudio Trecca). Gian Mario ha suonato il basso, Italo la batteria, Costantino le chitarre elettriche. Io ho suonato le chitarre elettriche, la chitarra acustica, il pianoforte, il sintetizzatore, l’armonica, ho cantato tutte le canzoni e ho composto tutti i testi e buona parte della musica. Fabio ha contribuito anche suonando il pianoforte e il sintetizzatore e facendo i cori, e in due canzoni compaiono Lorenzo Autorino ai cori e Jimmy From Ohio al sintetizzatore. Lo trovate praticamente ovunque, tra cui qui, qui, qui, qui, qui e qui. Quella che segue è una particolareggiata guida all’ascolto, che analizza la trama del racconto svelandone i retroscena.

01 – RESILIENCE BLUES

La title track segna un’uscita dal tunnel inattesa, proprio quando tutto sembrava perduto: in un dialogo quasi schizoide con se stesso, il protagonista ritrova la sua “parte sana” e la accusa di averlo abbandonato quando più avrebbe avuto bisogno di lei. La rabbia, però, lascia presto il posto al sollievo per la riconciliazione e alla speranza per le nuove possibilità che potrebbero aprirsi, con il fermo proposito di “non tornare mai più nel limbo”. E’ l’approdo a una nuova consapevolezza e maturità che verrà poi ulteriormente focalizzata su Looking For An Aeroplane Full OF Hope. Nel concept originale sarebbe dovuta essere la penultima traccia del disco, subito dopo la premonizione di rinascita suggerita nel finale di Endless Aeon: è stato il nostro produttore a consigliarci di metterla in apertura, facendone così una potente “sigla” dell’opera. Questa scelta trasforma radicalmente la materia trattata: il finale viene svelato nelle prime scene e tutto il lavoro può essere letto come una reminiscenza, rendendo più accattivante la narrazione. L’ingenuo ottimismo del testo si riverbera anche sulla musica, sferzata da una trionfale frase di organo, mai così vigorosa e positiva nel corso del disco. Tuttavia, rimane qualche perplessità sull’effettiva “guarigione”: parlare da soli non è esattamente un segno di lucidità ed equilibrio…

02 – BIPOLAR LAMENT

L’inizio del viaggio, tratteggiato con poche pennellate, astratte quanto rigorosamente autobiografiche: reduce da un devastante esaurimento nervoso che lo ha spinto a tentare il suicidio, il protagonista si aggira spaesato per le strade di New York, evocando una figura femminile (una persona amata, una raffigurazione del suo senno ormai smarrito o un’allegoria dell’America stessa) che pare dominare la sua mente già inevitabilmente deteriorata; mentre la realtà perde a mano a mano consistenza, affiorano foschi sentimenti auto-annichilenti. La lunga suite strumentale insegue sinesteticamente questa discesa nel delirio, ma con i suoi repentini cambi d’atmosfera cerca anche di restituire le vertigini umorali causate dal disturbo del titolo, fino al crollo che prelude alla definitiva perdita d’identità. Nel finale, ormai dissociato e costretto ad osservare impotente la propria disintegrazione, l’unica soddisfazione deriva dall’infantile speranza (affidata ad un interlocutore indefinito e forse inesistente) che tutto il mondo possa conoscere e riconoscere la propria disperazione, mentre un ipnotico susseguirsi di loop chitarristici sfuma in un silenzio sinistro, da morte cerebrale.

03 – I MIGHT BE HAPPY

E’ stato in assoluto il primo brano ad essere composto, quando l’architettura generale non era ancora ben definita. Il crollo è consumato, la luce non s’intravede e il suicidio si è già dimostrato una strada impraticabile: non resta che cercare di sopravvivere nella maniera più dignitosa possibile. L’affannosa ricerca di ciò che si è perduto lascia il posto all’interrogarsi sulle ragioni profonde della propria condizione, di cui si coglie l’aspetto patologico senza tuttavia riuscire a scavalcarlo, arrivando alla paradossale conclusione declamata nel ritornello (l’angelica seconda voce è fornita dal nostro produttore Fabio Grande): nulla è fuori posto, è la testa a non funzionare più come dovrebbe. Sullo sfondo si staglia costante il timore di impazzire, esemplificato dalla metafora dell’uomo primitivo che ha paura di chiudere gli occhi perché “la mia notte ingoierebbe il vostro giorno”. Nella seconda parte, l’apparente assenza di vie d’uscita si concretizza nella rabbia verso un “parassita spirituale” contro cui sfogare la propria frustrazione, aggravando il senso di scissione emotiva che è alla base della paralisi. La musica scorre semplice e diretta, un inno all’adolescenza ormai tramontata, fino ad un’improvvisa esplosione di rumore che raffigura quel frastornante caos mentale che impedisce al protagonista di “ascoltarsi” e riprendere in mano la propria vita come vorrebbe.

04 – BYE BYE, MYSELF

Uno dei pochi brani del disco in cui testo e gran parte della musica sono stati scritti da due persone differenti in due momenti diversi e poi accorpati, senza che ciò nuocesse alla coerenza e all’efficacia. Nel draft originale era inserita tra Bipolar Lament e I Might Be Happy, e rappresenta difatti una fase intermedia tra i due momenti: il crollo si è appena verificato e il protagonista contempla inebetito le macerie fumanti di ciò che è stato. In questo intorpidimento anestetico, in cui tutto pare insensato, l’unica sensazione che riesce ancora ad avvertire è lo stupore per la nuova condizione, mai provata prima. La rassegnazione delle strofe (rese ancora più oppiacee dalla voce fantasmatica del nostro amico Lorenzo Autorino) si tramuta nei ritornelli in un tormento più vivido, in cui ci si chiede cosa sia accaduto e stia accadendo, concludendo che forse non resta che salutare simbolicamente la propria identità perduta. Ci si può solo rassegnare quando “il proprio cervello decide di spegnersi da solo”. Mentre la confusione non stenta a placarsi e ogni soluzione pare inefficace (si riaffaccia, velata, anche l’ipotesi del suicidio), nel finale si tenta per l’ultima volta e senza successo un autoriconoscimento, preludio alla resa di fronte alla psicosi ormai incontrastata.

05 – HUGE EMPIRE OF NONSENSE TUMBLING DOWN VERY POLITELY

Il protagonista annega sempre più dentro se stesso: stordito, se ne sta a guardare in disparte mentre il suo mondo continua a cadere a pezzi, ripetendo ossessivamente un verso a metà tra un mantra e una ninna nanna, che pare rimbombare nella voragine scavata dallo scarno arpeggio della chitarra. Nel finale parlato accenna ad una festa che si sta svolgendo da qualche parte, lontano dalla sua impenetrabile solitudine, ostentando indifferenza per l’occasione perduta dato che ormai nulla ha più alcuna importanza. Un dissonante loop di e-bow accompagna la sua discesa nella follia, attorcigliandosi nel vuoto.

06 – …AND THEN, THE SACRIFICE

In un momento di maggiore lucidità, il protagonista torna a riflettere sulla sua condizione, ma lo fa nel modo peggiore: da un lato si colpevolizza senza pietà per essersi comportato in maniera sconsiderata, dall’altra cerca di discolparsi prendendosela con un fattore esterno (poco importa se sia la sua mente malata o un’entità soprannaturale cieca di fronte ai destini dell’umanità), accusato di non perdonare nessuna distrazione e di impedire così l’apprendimento da un’esperienza che si rivela subito invalidante, rendendo inefficace qualsiasi contromisura. La sensazione di aver “perso il treno” a causa dei propri errori si accompagna ad una paura crescente per ciò che sta vivendo, sfogata in un reiterato mea culpa che si accompagna allo straziante desiderio di poter tornare indietro per correggere ciò che si è sbagliato. L’andamento fuorviante della musica, che parte come una ballata pianistica volutamente melensa e precipita di punto in bianco in un martellante inferno noise (in origine pensato come un semiserio brano a sé stante), ben rappresenta questa lacerante disperazione senza uscita.

07 – WORRIES+FAULTS

Proseguono le sconsolate riflessioni del protagonista, conteso tra una malinconia sempre più languida e lampi quasi allucinati di speranza: la depressione seguita all’esaurimento (e i farmaci che è costretto a prendere) lo hanno indebolito a tal punto che riesce a mala pena a stare in piedi, costretto a passare giornate intere fissando il vuoto, rimuginando e avendo l’impressione di “rimpicciolirsi” giorno dopo giorno. Non mancano le solite, feroci autoaccuse, qui mosse dalla vergogna per la condizione che si sta vivendo piuttosto che dalla rabbia per averla provocata. La sensazione di non avere le forze per farcela da solo lo spinge a chiedere aiuto ad una presenza lontana non meglio circostanziata, pregandola di essere paziente, di sostenerlo e tirarlo fuori dalla palude in cui sta inesorabilmente sprofondando, mentre rispunta la sagoma sfumata dell’America a rappresentare un vaneggiato orizzonte di fuga. La voce, spremuta sul più alto registro possibile, è quella di un bambino impaurito, e nei ritornelli c’è posto solo per un trasognato vocalizzo in falsetto, come se le parole (e la razionalità) non potessero più nulla. L’immobilità del brano viene scossa dalla tesa invocazione finale, ma la speranza rimane flebile: le immagini inquietanti del terremoto in arrivo e del soffitto che sta per crollare evocano scenari non rassicuranti, e l’enigmatica figura femminile attesa in una delle ultime strofe potrebbe essere null’altro se non una personificazione della morte. La situazione sta per precipitare.

08 – USELESS ESCAPE FROM MY SWEET TERRIBLE NOWHERE

Viene descritta la faticosa routine quotidiana del protagonista: alzarsi la mattina diventa sempre più difficile, tutto pesa più del dovuto e le giornate paiono una la fotocopia dell’altra, dominate da meccanismi ossessivi sfibranti quanto ineludibili. Contesa tra abbandoni lirici e metafore militaresche, prosegue intanto l’autoanalisi, che per quanto lucida sembra sempre più sterile e solo funzionale ad alimentare il malessere. Al senso di colpa si è sostituita una sensazione di impotenza totale di fronte alla perversione autodistruttiva della malattia (in cui si è al contempo ostaggi e carcerieri, bersagli e cecchini), che quantomeno funge da assoluzione per le proprie presunte colpe. Le metafore apocalittiche evocate nel brano precedente si fanno ancora più minacciose (il sole spento, il meteorite in arrivo, “l’ultima notte”). L’andamento sostenuto del brano (il cui riff cristallino è oppresso dalla robustezza dell’accompagnamento) viene spezzato a metà da un turbine psichedelico, una fuga forse immaginaria dal dolore in cui si torna ad evocare un aiuto salvifico dall’esterno. Nel finale torna l’amara consapevolezza che “le cose purtroppo vanno bene” e l’unico problema è dentro la sua testa, concludendo con un’autoironica citazione Lou Reed-iana che suona quasi come una beffa.

09 – NO PLEASURE AT ALL

In un’atmosfera misticheggiante dipinta dal sintetizzatore si fa strada un monotono lamento a cappella, in cui viene espresso il proprio senso di alienazione, al contempo causa e conseguenza del disagio. Dopo una lunga introduzione strumentale a base di chitarre riverberate si approda ad una constatazione che non concede scampo: se si è condannati all’infelicità, ricattati tanto da se stessi quanto dallo schiacciante peso della “gravità”, la lotta è impari e dunque vana. L’assunto viene presentato come una una condizione ineluttabile e assume contorni cosmici, come se questa sorte implosiva accomunasse in fin dei conti tutti gli esseri umani. Curioso come uno spiraglio di luce vada ad insinuarsi proprio in un contesto così plumbeo: provare piacere è ormai impossibile, ma il protagonista nonostante tutto “continua a cercarlo”.

10 – AN ENDLESS AEON OF SILLY SILLY SORROW

Il brano più lungo, complesso, pesante, disperato dell’intero lavoro. Gran parte del testo è ricavato dal diario personale di chi scrive, in un estremo tentativo di esorcizzare i propri demoni, mettendosi a nudo senza mediazioni. Si tocca il punto di non ritorno: il protagonista ha visto fallire tutti i propri tentativi di risollevarsi e ha perso qualsiasi speranza e pulsione vitale. Tornano più violenti che mai l’autocolpevolizzazione, il rimpianto per un’energia ancora vicina nel tempo eppure lontanissima nella percezione, lo svuotamento di senso che priva la realtà del proprio valore. L’unica debole consolazione è la consapevolezza della difficoltà obiettiva della missione che ci si è posti. Se non si è più se stessi, se si è smarrita quella “luce senza la quale si è meno di niente”, continuare a vivere è una tortura che non giova a nessuno. Il suicidio (annunciato da un assolo quantomai acido e contorto) si prospetta come l’unica possibile via di uscita rimasta, poco importa se è una strada che ha già mostrato i propri limiti (e che anzi ha largamente contribuito a rendere il danno iniziale irreparabile). Per giustificare la propria decisione, vengono elencate quasi in trance le proprie contraddizioni e manchevolezze: l’essere stato di volta in volta troppo serioso o troppo superficiale, troppo prudente o troppo avventato, troppo accomodante o troppo intransigente, suggellando lo strazio con una frase così terribile da scatenare una serie di epilettiche convulsioni strumentali, che rappresentano altrettanti momenti di lotta con se stessi. Tuttavia, se in un primo momento le progressioni atonali e le sfuriate metalliche lasciano presagire una netta sconfitta, l’ultimo atto della suite vira improvvisamente su un’armonia più solare e ariosa, con una liquida frase di e-bow a dettare nuovamente la danza della vita: proprio quando i giochi sembravano chiusi, il protagonista ritrova un senso a cui aggrapparsi e la forza per farlo. L’outro pianistico, che armonicamente riassume le varie fasi del conflitto, è il definitivo congedo dall’incubo e il proemio di una possibile rinascita. La canzone è dedicata al compianto Peter Steele dei Type O Negative, ispiratori dei riff degli ultimi due atti.

11 – LOOKING FOR AN AEROPLANE FULL OF HOPE

L’unico brano a non aver vista mutata la propria posizione rispetto all’idea su carta è anche l’unico eseguito in solitaria, con il solo ausilio di chitarra acustica e armonica, al servizio della canzone più sinceramente pop della raccolta. Si ritorna al presente, con il protagonista ancora confuso ma sollevato, riscopertosi saggio dopo essere sopravvissuto alla tremenda esperienza, quantomai desideroso di condividere riflessioni tanto ovvie quanto (proprio per questo) catartiche. Non ha più importanza capire cosa sia accaduto esattamente, la realtà si autogiustifica e spesso non è sviscerabile in maniera lineare. Torna fugacemente l’afflizione per il tempo che si è sprecato, ma ci si rasserena di fronte al dato di fatto che l’avventura è finita bene. Si avverte un forte bisogno di leggerezza e positività, con il principio zen della soluzione insita nel problema a fungere da ombrello. Forse è vero che più siamo felici più tendiamo a lamentarci. Il percorso di maturazione si chiude con la certezza che “un giorno tutto risulterà chiaro” e che si verrà in qualche modo ricompensati per la sofferenza patita.

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